Coprifuoco in Lombardia. Come i media hanno gestito (male) una notizia che non era ancora una notizia

Ripubblico qui il mio editoriale, uscito su BuoneNotizie.it il 21 ottobre

Ieri, in Italia, una quantità impressionante di cittadini ha dato per scontato che con giovedì partisse il coprifuoco in Lombardia. Peccato che in realtà, nonostante i titoloni pubblicati dai giornali, ieri il coprifuoco in Lombardia fosse tutt’altro che certo come ha dimostrato la frenata di Salvini. Cos’è successo? Perché è stata data per assodata una notizia che in realtà, fino alla tarda mattina di oggi, non era ancora stata confermata? Qual è la chiave del gigantesco misunderstanding? La risposta, purtroppo, è sotto gli occhi di tutti e riguarda i media. O meglio, la gestione in base a cui la maggior parte dei media più diffusi sta affrontando il tema della pandemia.

Come ben sa chi si occupa di fake news e di debunking, bufale e disinformazione stanno spesso nel titolo, più che nel corpo di un articolo. È quello che è successo anche ieri quando diversi titoli hanno gridato al coprifuoco in Lombardia chiarendo poi, fra le righe degli articoli, che in realtà la richiesta di Fontana aveva ricevuto solo il sì ufficioso del ministro Speranza. Il problema, però, è che – come è risultato da una ricerca di qualche anno fa – la maggior parte dei lettori si ferma al titolo, senza leggere il contenuto degli articoli. Cosa che ovviamente finisce per veicolare un livello di disinformazione preoccupante.

Sempre tornando alla giornata di ieri, fra i giornali c’è anche chi è riuscito ad andare oltre. Nel primo pomeriggio, una famosa testata ha pubblicato un titolo (corretto alcuni minuti dopo) che annunciava nientedimeno un “lockdown in Lombardia dalle 23, così come in Campania”. Ora, per quanto il titolo sia stato parzialmente corretto poco dopo, non ci vuole molto a capire che in una situazione spiccatamente emotiva come quella attuale, confondere concetti come lockdown e coprifuoco sia un errore madornale.

Ed è qui che sta il nocciolo della questione: il tema dell’impatto delle parole. Il ruolo dei giornalisti come mediatori di chiavi di lettura che non provocano solo un effetto emotivo ma hanno anche pesanti conseguenze pratiche. Come è ovvio che sia, visto il legame a filo doppio che connette pensiero e azione.

Perché i media tendono a diffondere una percezione negativa di quanto sta capitando? La risposta è complessa e ha a che vedere in parte con l’attuale modello di business in uso per la maggior parte dei giornali. Ma non solo. A fine marzo, il governo inglese ha elaborato una serie di “opzioni per incrementare l’adesione alle misure di distanziamento sociale”. Tra le diverse proposte, ce n’erano alcune che riguardavano proprio i media. In particolare, il documento insisteva su due punti: il tema della “minaccia percepita” che deve essere incrementata per indurre i cittadini ad adottare le misure di distanziamento (da una parte) e l’importanza – parallelamente – di veicolare messaggi positivi riguardo alle azioni di protezione (“le persone hanno bisogno di considerare le azioni di autoprotezione in termini positivi e di avere fiducia sul fatto che siano efficaci”).

Quella che indica il governo inglese, è quindi una strategia di comunicazione duplice che per certi aspetti viene consigliata tutt’altro che a cuor leggero. In una tabella finale, infatti, che analizza le possibili risposte a questa strategia, si puntualizza che “utilizzare i media per aumentare il senso di minaccia personale” potrebbe avere effetti negativi. Un aspetto, peraltro, che – spostando il focus sul nostro Paese – è stato ampiamente dimostrato.

Basti pensare ai dati della Società Italiana di Cardiologia, che ha rilevato un numero triplicato di infarti dall’inizio dell’epidemia. Un problema su cui giocano fattori diversi, fra cui – anche – il timore dei pazienti che per paura del virus hanno messo in secondo piano il ricorso alla prevenzione. L’esempio del governo inglese è circoscritto, ma sicuramente suggerisce una chiave di lettura utile e scalabile anche altrove.

La negatività o addirittura il registro catastrofista con cui i media stanno gestendo la comunicazione del virus, hanno però anche altre cause che hanno a che vedere con il modello di business dei giornali. Mi spiego con un esempio. In Francia il classico titolone che calca volutamente la mano e veicola fake news, è chiamato volgarmente “putaclic” (pute à clic). Il senso dell’espressione è piuttosto esplicito ed esemplifica chiaramente la tendenza a cercare di attirare i click degli utenti per convertirli in proventi pubblicitari.

La situazione, insomma, non è rosea: le condizioni di buona parte dell’informazione allo stato attuale e gli effetti ansiogeni che questo produce sugli utenti, sono sotto gli occhi di tutti. Che fare, quindi? Noi, come giornalisti, la nostra risposta l’abbiamo trovata ed è il giornalismo costruttivo. Siamo però convinti che anche i lettori abbiano un ampio margini di intervento e siano – potenzialmente – degli attori, più che dei soggetti passivi. Scegliere con cura i propri canali di informazione, cioè selezionare la propria dieta mediatica ed escludere articoli e servizi di bassa qualità, è un potente strumento d’azione. Così come è utile evitare di cadere nel tranello dei titoli acchiappa-click, smettendo di condividere notizie senza averle lette per intero.

Il giornalismo, così come ogni tipo di comunicazione in generale, non è mai univoco. Coinvolge, cioè, sia chi scrive sia chi legge. Non dimentichiamocelo.

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