Nel mio intervento (accreditato come corso presso l’Ordine dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia) ho parlato – come sempre – di giornalismo costruttivo, concentrandomi però su temi come sostenibilità ambientale e crisi climatica. Il legame tra giornalismo costruttivo e tematiche così nodali è stato, di fatto, involontariamente sottolineato dalle linee guida sulla comunicazione dei cambiamenti climatici dell‘IPCC (l’Organizzazione intergovernativa sul cambiamento climatico), il forum scientifico fondato nel ’98 da due organismi delle Nazioni Unite).
Molto probabilmente, i promotori delle linee guida non conoscono il giornalismo costruttivo: ciò che emerge dal documento è però un’esplicita richiesta di modalità di comunicazione che rispondono in toto a quelle che sono le basi del giornalismo costruttivo. Ne avevo già parlato qualche mese fa sugli schermi di Teletruria.
Da parte dei giornalisti presenti al corso, ho riscontrato un interesse palpabile che spero si traduca in stimoli alla ricerca e alla trasformazione delle modalità di narrazione attuali. Alla fine del mio intervento, sono stata intervistata dall’organizzazione del Festival del giornalismo e ho brevemente riassunto la nostra esperienza editoriale: dalla fondazione di BuoneNotizie.it (vent’anni fa) all’incontro con la ricca e composita galassia del giornalismo costruttivo.
Nelle ultime settimane, la notizia dell’alluvione in Emilia Romagna ha ampiamente monopolizzato i palcoscenici mediatici. E il mondo dei social che – ormai – fa parte a tutti gli effetti del flusso informativo.
Sotto i nostri occhi sono state riversate a ciclo continuo storie di catastrofi personali e storie di eroi. Il pilota giapponese di Formula 1 che va a spalare fango insieme agli altri, la disperazione delle famiglie rimaste senza un tetto, la polemica su Bruce Springsteen che non parla dell’alluvione ecc. Insomma: la solita copertura fatta non per tanto per informare quanto per alimentare il voyeurismo del pubblico. Avremmo potuto – noi giornalisti – affrontare il tema in modo diverso, cioè più utile? La risposta è sì.
Punto primo: uscire dal mito dell’Eroe e dal mito della Vittima
“Felice è il popolo che non ha bisogno di eroi” scriveva Bertolt Brecht. Personalmente, sono più che d’accordo con lui e mi viene di completare la frase aggiungendo: “Felice il popolo che non ha bisogno né di eroi né di vittime”. Lo dico da giornalista, ma anche – soprattutto – in quanto portavoce di una corrente, il giornalismo costruttivo, che è nato con l’obiettivo di uscire da questo tipo di narrazione.
Perché? Perché non serve. Chi ha qualche nozione di morfologia della fiaba, sa che le fiabe hanno bisogno di principi, orchi, principesse: di Vittime e di Eroi, ovvero di “ruoli”. La realtà, però, è diversa. Non è una fiaba e ha bisogno di essere raccontata in modo diverso. Partendo da un colpo d’occhio più ampio, ottenuto con grandangolo, che aiuti a calare ogni avvenimento all’interno di un trend. Perché solo così è possibile capire realmente come stanno le cose e passare, poi, alle domande successive: dove stiamo andando? Cosa possiamo fare per migliorare?
Un esempio: i morti per alluvione. Partire dai numeri
Qualche anno fa, in piena pandemia, i media gridavano alla catastrofe parlando dell’ecatombe scatenata in India e in Bangladesh dal ciclone Amphan. In realtà, il ciclone aveva fatto grandi distastri ma confrontando il numero dei morti (118) con le vittime provocate dai cicloni precedenti, la visione si ribalta: quello che emerge, cioè, è un miglioramente radicale innescato da cambiamenti virtuosi (nella gestione degli eventi estremi) che purtroppo non vengono mai raccontati.
Partendo da qui, possiamo tracciare una panoramica di segno diverso sulla situazione in Emilia Romagna, dove i morti sono stati 15. Un numero ben diverso dai 160 morti che un episodio simile ha provocato nel Sarno nel 1998, dai 318 morti dell’alluvione di Salerno del ’54 o dalle 80 vittime del Polesine, tre anni prima (giusto per citare qualche cifra). Perché? Perché stiamo imparando a gestire – e anticipare – le emergenze in modo migliore. Perché la nostra Protezione Civile ha un livello di preparazione che viene portato in palmo di mano anche in contesti internazionali.
E’da qui che bisogna partire per fare il passo successivo e per chiederci cosa avremmo potuto fare per evitare i 15 morti di Rimini. Creando un modello di gestione delle emergenze basato su esempi scalabili, che ci aiutino ad affrontare meglio questi episodi quando ricapiteranno in futuro.
Come? Adattando le città ai cambiamenti climatici in corso (ma anche a una fragilità idrogeologica che abbiamo sempre avuto) con il recupero della permeabilità del suolo attraverso sistemi di drenaggio sostenibile. Vedi il modello sponge city, nato in Cina e a cui, attualmente, guardano anche città come New York (o come Glasgow e Manchester, in Europa). Creando vasche sotterranee di raccolta delle acque negli spazi pubblici (come già si è fatto a Barcellona e a Rotterdam) ed evitando l’utilizzo dei piani interrati. Ripristinando le aree di esondazione naturale dei fiumi e supportando i corsi d’acqua con casse di espansione (se ne era già parlato per il fiume Misa, molto prima dell’ultima alluvione nelle Marche, ma nulla è stato fatto tra processi e pastoie burocratiche). Monitorando il divieto di edificazione in aree a rischio. Creando un sistema di messaggistica più efficace, che consenta una trasmissione più rapida e capillare delle allerte: lo si è fatto a Durban, in Sudafrica, mettendo a punto un’efficace piattaforma digitale di chat di gruppo.
La cattiva notizia è che molto deve ancora essere fatto. La buona notizia è che molto è già stato fatto e molto può essere fatto.
Tra le tante cose davvero belle di questo intensissimo periodo di lavoro, c’è il fatto che sto collaborando con l’Università Statale di Milano a un progetto che mi vede coinvonta come giornalista insieme a docenti e ricercatori del dipartimento di Scienze della Terra per un corso sull’Economia Circolare rivolto agli studenti delle scuole superiori.
La nostra prima incursione ha avuto luogo un paio di settimane fa nella Bergamasca dove abbiamo tenuto un corso davvero disruptive su problemi e soluzioni.
Dei contenuti che sono emersi, ho parlato stamattina sugli schermi di Teletruria dove ho affrontato il tema – difficile ma nevralgico – del costo reale dell’energia pulita considerata dal punto di vista del LCA (analisi del ciclo di vita): uno strumento che misura l’impatto ambientale non solo in base alle emissioni prodotte o evitate in loco ma anche in base alle fasi di costruzione (approvigionamento delle materie prime necessarie, estrazione mineraria in primis) e smaltimento.
Nell’arco di una prospettiva olistica, quindi. Un tema a cui – io che in quanto giornalista costruttiva mi occupo di “soluzioni” – tengo moltissimo perché trovare UNA soluzione non basta (così come, nei gialli, non basta trovare un supposto assassino) se poi la soluzione – applicata senza cognizione di causa – rischia di fare più male che bene.
Del fatto che l’acqua sia una risorsa preziosa ce ne stiamo rendendo conto tutti a suon di episodi siccitosi. Sappiamo anche che la nostra rete idrica è un colabrodo e che in certe province (Frosinone) le perdite raggiungono l’80%. Detto ciò, siamo ancora – almeno per ora – all’interno di una bolla fortunata in cui il “grosso” dei conflitti legati all’acqua si sente relativamente poco.
Parlo volutamente di conflitti perché le “guerre dell’acqua” a volte sono guerre vere e proprie e a volte, come nel caso del water grabbing, sono conflitti. Molte le cause, tra cui gioca senz’altro un ruolo di primo piano lo ha il combo tra:
– l’aumento della domanda (incremento della popolazione mondiale, democratizzazione del consumo nelle aree più ricche, con conseguente aumento degli utenti effettivi e nuove abitudini igieniche. Risultato: +1% della domanda di acqua ogni anno, da quarant’anni a questa parte, ma da qui al 2030 l’incremento potrebbe essere anche superiore)
– la riduzione dell’offerta (ovvero incremento delle temperature, degli episodi siccitosi e incapacità, almeno per il momento, di contenere e riutilizzare su grande scala, le risorse generate dalle cosiddette bombe d’acqua).
Questa è la situazione. Le guerre dell’acqua sono sempre di più (202 negli ultimi due anni) e gli episodi di water grabbing (che spesso vanno a braccetto con clamorosi esempi di greenwashing) pullulano. Detto ciò: what now? Quali sono le soluzioni? Come si risolvono i conflitti? In buona parte giocando d’anticipo senza aspettare che la frittata sia fatta.
Cambiare la narrazione dei cambiamenti climatici alle radici è fondamentale. Ed è fondamentale farlo rientrando in quella che in gergo si chiama “comunicazione del rischio“: una strategia comunicativa che viene messa in campo in situazioni di rischio oggettivo (guerre, catastrofi naturali, pandemie) con l’obiettivo specifico di rendere le persone in grado di rispondere in modo “utile” all’emergenza, sul piano concreto.
Detta in pillole: se sono su un’auto e qualcuno si mette a urlarmi nelle orecchie “finirai in un burrone!”, mi coprirò gli occhi, inizierò a urlare ed effettivamente finirò in un burrone. Ovvero: non farò nulla. Se invece mi viene detto: “se vai avanti per questa strada finirai in un burrone tra due minuti, ma se giri da questa parte ti salverai la pelle”, presumibilmente sterzerò dalla parte giusta. O comunque farò in modo di assumere la guida e di prendere la situazione in mano.
Questa metafora vale per qualsiasi situazione di emergenza, crisi climatica inclusa. Ecco perché è importante parlare anche di soluzioni: perché le soluzioni sono un “si può fare” che mobilita all’azione e la orienta. Un aspetto che, nel bel mezzo di cotanta informazione spettacolarizzata, abbiamo perso di vista. Questo vale sia nel caso di soluzioni macro (quelle che puntano alla riduzione delle emissioni e al loro riassorbimento) sia per le cosiddette soluzioni di adattamento. Quelle, cioè, che ci aiutano da una parte a capire che l’impatto della crisi climatica è “qui e ora”, e dall’altra ci consentono di mitigarne gli effetti. Marco Merola ha approfondito il tema nel suo bellissimo progetto: Adaptation, appunto (nomen omen).
Ieri, sugli schermi di Teletruria, ho approfondito il tema.
Quando mi capitano sott’occhio video di leoni che abbracciano neonati con musichette edificanti di sottofondo, confesso che di solito ho reazioni scomposte.
Anche se video di questo tipo circolano sulle pagine di amanti degli animali, paradossalmente sono convinta che questo immaginario disneyano agli animali faccia più male che bene, perché alimenta una percezione edenica, romantica e antropocentrica che non ci aiuta ad accettare e amare l’animale per quello che è. Un discorso che vale per tutta la natura, in realtà, che non è “a misura d’uomo”. Detta fuori dai denti, il leone che anziché fare pucci-pucci al neonato se lo mangia non è cattivo: semplicemente, non è uscito da un cartone animato di Walt Disney. È un leone, cioè una grande carnivoro in cima alla catena alimentare. E va benissimo così.
Oggi, sugli schermi di Teletruria, ho parlato dei grandi carnivori che popolano le montagne italiane e ho cercato di fare un po’ di luce sugli aspetti che possono rendere problematica la loro convivenza con noi e sulle soluzioni (politiche di adattamento ma anche switch mentali) che servono per aiutarci a convivere con loro nella porzione di mondo che abitiamo. Possibilmente, senza scadere nel paradosso per cui prima li aiutiamo a tornare con pratiche di rewilding e poi decidiamo che non ci vanno più bene perché (ohibò!) abbiamo scoperto che non sono dei peluche.
La settimana scorsa, nell’appuntamento televisivo settimanale di cui sono ospite sugli schermi di Teletruria, ho parlato di un tema che mi sta particolarmente a cuore: inquinamento luminoso e difesa del cielo buio.
Sul problema della light pollution e sull’esigenza di alfabetizzazione intorno al tema del buio, qualche anno fa ho creato un progetto insieme al regista e fotografo Max Franceschini. Sul sito The light side of the nightabbiamo provato a dare vita a un progetto di “storytelling del buio” declinato nelle tre sezioni: Imparare a leggere il buio – Storie nel buio – La Notte dei popoli.
Come spiego in questo video, parlare di inquinamento luminoso e di cieli bui è molto più difficile che parlare di altre forme di inquinamento. Viviamo, da sempre, immersi in una cultura della Luce che dal secondo Dopoguerra si è progressivamente trasformata in una cultura dell’illuminazione. Difendere il nostro “buio vitale”, contrastare l’inquinamento luminoso e tutelare un bene clamorosamente in via di estinzione come il cielo buio non è un problema di nicchia condiviso da un eccentrico gruppo di astrofili o da controculture darkettone.
Nel mio intervento su Teletruria spiego cos’è l’inquinamento luminoso, quali sono le conseguenze della light pollution sulla fauna notturna e sull’uomo e provo ad abbozzare una timida panoramica sulle soluzioni possibili parlando di chi sta tentando di fare qualcosa.
Piccola e doverosa postilla: difendere il buio non significa sposare il lato oscuro ma cercare di recuperare quel bilanciamento tra Luce e Oscurità che oggigiorno è venuto a mancare. Come sostiene Tanizaki nel suo Libro d’Ombra – parlandone peraltro in modo meraviglioso – difendere il diritto del Buio a esistere significa anche, implicitamente, tutelare il ruolo della Luce.
Oggi, sugli schermi di Teletruria (dove sono ospite come direttore responsabile di BuoneNotizie.it e come docente dell’Associazione Italiana Giornalismo Costruttivo) ho parlato di space economy. O meglio: di new space economy.
La corsa allo spazio è iniziata molto tempo fa e già allora, dall’era del lancio dello Sputnik, lo sviluppo delle operazioni spaziali implicava anche la nascita di una nuova economia. Solo oggi però, sulla scia dello sviluppo delle nuove tecnologie e dell’ingresso dei privati, l’economia dello spazio acquisisce un peso che, in prospettiva, potrebbe diventare trainante. Con aspetti potenzialmente positivi per quanto riguarda il cosiddetto segmento downstream della space economy. I dati che ci arrivano dallo spazio vanno infatti a nutrire molti rami: dal monitoraggio dei problemi ambientali (deforestazione, desertificazione) alla prevenzione e alla gestione delle emergenze per non parlare delle implicazioni sul piano dell’agricoltura di precisione, dei trasporti ecc.
C’è però anche un rovescio della medaglia. Per quanto – sul piano quantitativo – i rifiuti umani nello spazio rappresentino un nonnulla, in termini umani la presenza di un problema rifiutispaziali (moltissimi intorno alla Luna e alla Terra) porta alla luce qualcosa di cui dobbiamo prendere atto. Se lo spazio si tarsformerà nell’ennesimo Far West in cui trasferiremo le logiche coloniali che hanno generato mostri qui sulla Terra, se lo trasformeremo in una falsa pagina bianca in cui copincollare tutto ciò che non ha funzionato quaggiù, non sarà “un grande passo per l’umanità”: sarà solo l’ennesima débacle.
Oggi, su Teletruria (dove sono ospite di Gloria Peruzzi ogni settimana) ho parlato di una bella inchiesta sulla violenza di genere che recentemente abbiamo pubblicato su BuoneNotizie.it: la testata di cui sono direttore responsabile ormai da due anni e mezzo.
Come presupposto, siamo partiti da quella che per noi è la domanda fondamentale: che tipo di informazione serve alle vittime? Parlare di femminicidi è giusto, ma parlare “solo” di femminicidi – indulgendo nei particolari più morbosi – rischia solo di amplificare l’onnipotenza del carnefice nella percezione delle vittime e di di diventare un deterrente per le donne che vorrebbero denunciare. Cosa serve, quindi, per favorire l’emersione del problema? Abbiamo risposto con gli strumenti del giornalismo, mettendo l’accento su cosa sta cambiando e su cosa serve.
Lo abbiamo fatto partendo dai numeri e guardandoli in modo diverso perché il numero, a volte, non dice una cosa sola ma apre tanti spaccati. L’incremento delle denunce, per esempio, parla della gravità del fenomeno ma allo stesso tempo ci dice che (a differenza del passato, quando tutto passava sotto silenzio) oggi, finalmente, molte situazioni vengono alla luce e questo succede perché esiste una rete sempre più forte di CAV, rifugi e professionisti specializzati.
Abbiamo poi parlato di esempi virtuosi (e scalabili, cioè replicabili anche da noi) come quello della Spagna, che ha iniziato un percorso normativo e di professionalizzazione molto prima di noi. Last but not least, abbiamo poi parlato di una cosa (positiva) di cui non si parla mai: l’aumento delle denunce da parte di donne, sta aiutando anche gli uomini a denunciare. Perché sì, esiste (in modo diverso: in termini più di violenza economica e psicologica) anche una violenza sugli uomini, perpetratata sia da donne sia da altri uomini. Una violenza che fa ancora fatica a venire alla luce perché – sempre a causa degli stereotipi – un uomo che denuncia violenza (a maggior ragione se da una donna) purtroppo fa ancora ridere e viene additato come “debole” o “femminuccia”. Il futuro della lotta contro la violenza di genere, credo che starà anche in questo: nella maturazione di un approccio più inclusivo.
Oggi, sugli schermi di Teletruria, ho parlato di fame nel mondo e di spreco di cibo. L’impatto del cibo che viene prodotto e buttato via è enorme, con conseguenze facilmente immaginabili sia in termini sociali (avremmo cibo per sfamare 12 – anziché 8 – miliardi di persone ma la fame continua a mietere vittime) sia dal punto di vista ambientale (cibo buttato via = emissioni).
La soluzione? Ridurre gli sprechi sia sul piano individuale (il 61% del cibo viene buttato via in ambito domestico) sia a livello macro.
Detto questo, però, ammettiamolo: lo spreco di cibo dipende anche da cause politiche e sociali che hanno a che vedere con la distribuzione assolutamente impari delle risorse e della ricchezza. Ed è anche da qui che bisognerà partire per ripensare al problema della fame nel mondo ridistribuendo colpe e responsabilità in modo più equo e guardando a soluzioni di reale impatto.
La riduzione degli sprechi funzionerà solo se portata avanti in sinergia con politiche efficaci su altri fronti. Parlarne con gli strumenti del giornalismo costruttivo significa guardare alle possibili soluzioni senza però indorare la pillola e analizzando in modo rigoroso anche gli aspetti più critici del problema.