Per ora c’è solo il trailer, ma presto verranno pubblicati i primi due episodi di Il buio rubato, un podcast in cui parlerò di inquinamento luminoso e di cultura del buio. Una produzione di Numi Media.
Il buio rubato non è solo un podcast sull’inquinamento luminoso
Il buio rubato fa parte dello sviluppo di The Light Side of The Night, un progetto che ho fondato qualche anno fa insieme a Max Franceschini e che all’inizio voleva solo essere un portale informativo, per parlare di inquinamento luminoso e dell’esigenza di costruire una cultura del buio. L’inquinamento luminoso, infatti, è un problema ad ampio raggio – con un forte impatto ambientale, peraltro – che però è difficilissimo far percepire come un problema reale.
Il buio non piace. Il buio rientra nel bagaglio delle tante cose che abbiamo messo alla porta anche se fanno parte di noi. Per questo, credo una battaglia contro l’inquinamento luminoso non possa prescindere da una pars construens che va costruita con lentezza e pazienza: costruire una cultura del buio. The Light Side of the Night ha quindi iniziato a evolversi e, da portale informativo, si è trasformato in una base di partenza per piccoli progetti di “impollinazione”. Tra cui, per esempio, la costruzione di tre itinerari notturni che ho costruito insieme a Georama Esplora e che si sono concretizzati nel progetto Si è spento il buio – Sentieri nella Notte illuminata a giorno.
Il podcast Il buio rubato fa parte di questa evoluzione progettuale. Sarà un viaggio anche questo, esattamente come i sentieri costruiti con Georama e come l’intero progetto The Light Side of The Night sarà un viaggio concepito per informare sul tema dell’inquinamento luminoso ma anche per riflettere, strada facendo, sui mille significati del buio che abbiamo perduto.
Sul tema del buio e dell’inquinamento luminoso, ho sempre avuto una vera e propria fissazione. Che ovviamente, nel tempo, si è trasformata in interesse giornalistico. Sei anni fa, insieme a Max Franceschini, ho aperto The Light Side of the Night: un portale di informazione sul tema della light pollution e delle sue conseguenze sull’ambiente ma anche sull’esigenza di costruire (o meglio: ri-costruire) una vera e propria cultura del buio.
Per qualche anno ho scritto, studiato e anche parlato di inquinamento luminoso. Ma a partire da quest’anno, ho deciso di fare un passo avanti e questa decisione ha a che vedere con un’esigenza, personale, di riportare il giornalismo là dove il giornalismo è nato: sulla strada. C’è qualcosa che negli ultimi anni abbiamo perso – come mostrano i dati del Digital News Report – e questo qualcosa è la fiducia del pubblico nei media. Un problema complesso e multicausale che, secondo me, con l’arrivo dell’AI non farà che intensificarsi. Che fare, quindi? Come giornalista costruttiva sono abituata a sfoderare, ogni volta che posso, la nostra “sesta W”, il proverbiale “What now?” del giornalismo costruttivo. E la risposta che mi sono data è questa: dobbiamo ripartire dalla strada e tornare tanto a interrogare i problemi quanto a informare “scendendo in campo”.
Quest’esigenza è urgente, a maggior ragione, quando si parla di un problema non riconosciuto e minimizzato come l’inquinamento luminoso. Per la serie: se Maometto non va alla montagna, la montagna va a Maometto. Ho deciso così di creare degli itinerari notturni per parlare di inquinamento luminoso dal vivo, permettendo alle persone di toccare il problema con mano. Per farlo, ho coinvolto Georama Esplorazioni Contemporanee ed è così che, insieme a loro, è nato il progetto SI È SPENTO IL BUIO – Sentieri nella notte illuminata a giorno. Il primo dei nostri sentieri notturni sarà su Milano e partirà dall’unico cielo stellato visibile in città, la cupola del Planetario. Ma oltre a questo, abbiamo già in serbo altri itinerari. Del progetto, parleremo io e Carmelo Vanadia, di Georama, al Festival del Giornalismo di Ronchi dei Legionari, l’11 giugno. E intanto, nuove idee prendono forma.
Venerdì 9 maggio sono stata a Roma per il Constructive Day 2025, dove si è parlato (molto e bene) di giornalismo costruttivo. E dove anch’io ho tenuto un intervento a proposito di un tema che, in quanto giornalista costruttiva, mi sta particolarmente a cuore. Ma andiamo con ordine. Cos’è il Costructive Day?
Il panorama del giornalismo costruttivo in Italia è, per fortuna, sempre più ricco. Fino a qualche anno fa, eravamo davvero in pochi a conoscere questa corrente e a cercare (faticosamente) di portarla avanti. Oggi siamo un po’di più. All’interno del panorama italiano, in ambito costruttivo gioca un ruolo fondamentale il Constructive Network, fondato sei anni fa da Assunta Corbo insieme ad altri colleghi. Il Constructive Network per certi aspetti ricorda l’esperienza francese di Réporters d’Espoirs, con la differenza che Réporters d’Espoirs ha iniziato a muovere i primi passi 22 anni fa, a Parigi, con un clamoroso riconoscimento da parte dell’UNESCO nel 2004.
Il Constructive Network indubbiamente è molto più giovane ma, come per Réporters d’Espoir rappresenta un’unione sinergica di giornalisti e professionisti della comunicazione attivi ognuno nel proprio ambito ma con una visione comune. Il Network conta, ad oggi, duecentosessanta adesioni. Che all’interno del panorama italiano non sono poche. Il Constructive Day – che si è tenuto a Roma, presso la sede di Palazzo Valentini – è stato una bella e interessante occasione per incontrarsi dal vivo. Con interventi di valore, tra cui – giusto per citare qualche nome – quelli Marco Merola (ideatore del webdoc ADAPTATION, in cui si raccontano progetti e storie di adattamento ai cambiamenti climatici), di Daniel Tarozzi (fondatore e direttore di Italia Che Cambia) e di Raffaele Lupoli, direttore di Economiacircolare.org. Non cito altri colleghi per amor di brevità, ma una menzione la merita senz’altro anche Marisandra Lizzi, autrice di Lettera a Jeff Bezos: dalle relazioni pubbliche alle relazioni umane. Come ho riscritto i principi di Amazon.
Tra i relatori della giornata, ci sono stata anch’io, con un intervento su un tema che – soprattutto nell’ultimo anno – è stato al centro delle mie riflessioni ovvero: la necessità, da parte di noi giornalisti costruttivi, di esercitare uno sguardo critico anche sulle soluzioni. C’è infatti una trappola, subdola e pericolosissima, in cui soprattutto noi – abituati a raccontare il problema dal punto di vista della soluzione – corriamo il rischio di cadere. La ricerca della “soluzione a tutti i costi” è infatti qualcosa che non funziona: che ci differenzia, sì, dal catastrofismo da cui vogliamo distinguerci, ma che allo stesso tempo rischia di trasformare il nostro lavoro da ricerca rigorosa a favoletta consolatoria. Le soluzioni (soluzioni valide ed efficaci, intendo) non esistono sempre. In certi casi sono work in progress. In altri casi, quelle che vengono presentate come soluzioni rappresentano solo uno specchietto per le allodole e un vero giornalista costruttivo dovrebbe smontarle anziché avvalorarle. Mi riferisco, per esempio, a molti aspetti della transizione energetica: il suo costo in termini di estrazione mineraria e di impatto ambientale indiretto, giusto per dirne una. In fondo, è lo stesso concetto di greenwashing che ci mostra come la ricerca di soluzioni debba essere costruita con inappuntabile rigore critico. Fare il pelo e il contropelo alle soluzioni e dubitare sempre: questo, secondo me, è un primo punto importante da cui dobbiamo partire.
C’è poi un secondo punto che ho voluto mettere in evidenza. La sesta W del giornalismo costruttivo è “what now?” ovvero: una volta analizzato il problema, cosa possiamo fare? La sesta W è l’elemento chiave del giornalismo costruttivo. Purché non venga presa come un dogma. Ci sono temi, per esempio, in cui – prima di accendere i riflettori sulle soluzioni – è fondamentale mantenere il focus sul problema. Analizzandolo con lucidità e anche enfatizzandolo in modo utile, se necessario. A questo proposito, ho parlato delle forme di “inquinamento Cenerentola”, quelle meno riconosciute, fra cui l’inquinamento luminoso. Su questo tema sto costruendo un progetto articolato, di cui parlerò prossimamente e che fa riferimento al mio sito The Light Side of the Night. L’inquinamento luminoso è un problema con la P maiuscola, che ha un forte impatto sull’ambiente, sulla salute e su altri aspetti nevralgici. Eppure, raramente l’inquinamento luminoso viene riconosciuto come un problema reale. Nella maggior parte dei casi, lo si declassa a fissazione di uno sparuto gruppo di astrofili. Ecco perché, in questo caso, come in altri casi, ritengo sia utile raccontare il problema aiutando i nostri lettori a percepirlo come tale, prima ancora di mettere in luce le soluzioni.
Personalmente, sto sempre più arrivando a una definizione del giornalismo costruttivo un po’meno centrata sulla ricerca delle soluzioni tout court e un po’più focalizzata su altri aspetti. Il giornalismo costruttivo come giornalismo “utile”, attento all’impatto della notizia e al legame – conseguente – fra informazione e azione. In fondo, sempre di giornalismo costruttivo si tratta.
Quest’anno ho iniziato a collaborare con l’Università Statale di Milano come docente nell’ambito di un corso – finanziato dal PNRR – sull’economia circolare. Insieme ad alcuni docenti della facoltà di Scienze della Terra, sto approfondendo temi nevralgici come l’impatto ambientale della transizione energetica e l‘esigenza di un approccio realistico ai consumi e all’economia circolare.
Cos’è, concretamente, l’economia circolare? Secondo la definizione del Parlamento Europeo, si tratta di un “modello di produzione e consumo che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali il più a lungo possibile”. Modello di consumo ma anche di produzione, quindi: lo sottolineo perché questo aspetto porta alla luce due tipi di problemi.
Il primo è la differenza tra reale e percepito. Se chiedessimo cos’è l’economia circolare a una persona presa a caso, con ogni probabilità ci sentiremmo rispondere che si tratta di un modello di riciclo e di corretto smaltimento dei rifiuti. Raramente si fa riferimento alla produzione e questo è un problema.
Secondo problema: l’economia circolare riguarda anche la produzione, è vero, ma finché il modello produttivo inseguirà la chimera della crescita continua (con ovvie ricadute sull’aumento dell’obsolescenza dei prodotti), non ci potrà mai essere vera e propria economia circolare.
Di questi temi ho parlato oggi su Teletruria, partendo da due esempi concreti che ci fanno capire in modo molto concreto qual è l’impatto ambientale dei nostri consumi.
Che il mondo del lavoro stia cambiando non è certo un mistero. La pandemia – e il macroscopico sviluppo dello smart working, di seguito – ha fatto da acceleratore ma molte trasformazioni erano già in atto da tempo. A partire dalla Great Resignation – il fenomeno delle Grandi Dimissioni – già presente negli USA da prima della pandemia e attualmente diffuso anche in Europa (Italia compresa).
Le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro ci obbligano a familiarizzare con un nuovo vocabolario, che fa da veicolo a ulteriori tendenze. Sia che si parli di Grandi Dimissioni sia che si parli di quiet quitting, tuttavia, un denominatore comune c’è: il nostro rapporto con il mondo del lavoro sta cambiando. Stiamo iniziando a chiedere – e a pretendere – qualcosa in più e questo qualcosa (“il pane e le rose”, in parte) porta alla luce alcuni aspetti della hustle culture – il modello iperproduttivo tossico per eccellenza – che dobbiamo e possiamo cambiare.
Il panorama lavorativo attuale è complesso, non c’è che dire, e lo complicano ulteriormente i dilemmi innescati dagli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale. L’AI ci ruberà il lavoro? Dovremo prepararci a un mondo in cui a lavorare saranno i robot? Nel caso, quali potrebbero essere le soluzioni possibili sia in termini economici (reddito universale, ad esempio) sia in termini identitari, considerando che la nostra cultura lavorativa attuale vede una vera e propria identificazione dell’individuo con la sua professione?
Di tutti questi aspetti ho parlato oggi su Teletruria.
Raramente le manifestazioni del movimento pacifista intersecano l’attivismo di stampo ambientalista. Eppure tra guerre e problemi ambientali esiste un legame di perfetta reciprocità (no, diciamola fuori dai denti: un circolo vizioso).
I cambiamenti climatici incrementano il numero dei conflitti – ed esasperano quelli già esistenti – dando origine a flussi migratori sempre più imponenti. La Convenzione di Ginevra non parla ancora di “rifugiati climatici” ma, di fatto, tant’è: “le persone sfollate nel contesto di disastri e cambianenti climatici” (la definizione attuale è questa) sono state quasi 24 milioni solo nel 2021. E secondo le proiezioni, potrebbero diventare 220 milioni entro il 2050.
D’altro canto, anche le guerre hanno un’impatto sui cambiamenti climatici. Se ragionassimo in termini di “impronta carbonica” come si fa per le industrie (e quella della guerra è un’industria!) scopriremmo, per esempio, che l’esercito degli Stati Uniti (uno dei più grandi al mondo) ha un’impronta carbonica superiore a quella di 140 Paesi. Il discorso, poi, si amplia se consideriamo l’impatto delle guerre sulla distruzione degli ecosistemi (una foresta distrutta non produce più ossigeno e rilascia tonnellate di carbonio) e sulle ricostruzioni postbelliche. Che implicano produzione di CO2.
E allora? Come uscirne? I conflitti fanno parte della storia umana ma quello che possiamo fare è cambiarne la gestione costruendo le premesse perché le risposte alle guerre non siano soluzioni di stampo militare.
E’in questo senso che si è sviluppato il concetto di “Disarmo climatico”. Una risposta lenta e complessa che, per svilupparsi, ha più che mai bisogno della società civile. E anche dei media perché per orientare la società civile verso azioni mirate, serve un’informazione corretta. In sintesi, come ho detto più volte, occorre in parte cambiare e in parte integrare l’attuale narrazione dei cambiamenti climatici.
Nel mio intervento (accreditato come corso presso l’Ordine dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia) ho parlato – come sempre – di giornalismo costruttivo, concentrandomi però su temi come sostenibilità ambientale e crisi climatica. Il legame tra giornalismo costruttivo e tematiche così nodali è stato, di fatto, involontariamente sottolineato dalle linee guida sulla comunicazione dei cambiamenti climatici dell‘IPCC (l’Organizzazione intergovernativa sul cambiamento climatico), il forum scientifico fondato nel ’98 da due organismi delle Nazioni Unite).
Molto probabilmente, i promotori delle linee guida non conoscono il giornalismo costruttivo: ciò che emerge dal documento è però un’esplicita richiesta di modalità di comunicazione che rispondono in toto a quelle che sono le basi del giornalismo costruttivo. Ne avevo già parlato qualche mese fa sugli schermi di Teletruria.
Da parte dei giornalisti presenti al corso, ho riscontrato un interesse palpabile che spero si traduca in stimoli alla ricerca e alla trasformazione delle modalità di narrazione attuali. Alla fine del mio intervento, sono stata intervistata dall’organizzazione del Festival del giornalismo e ho brevemente riassunto la nostra esperienza editoriale: dalla fondazione di BuoneNotizie.it (vent’anni fa) all’incontro con la ricca e composita galassia del giornalismo costruttivo.
Un po’ come la light pollution, anche l’inquinamento acustico è una forma di inquinamento Cenerentola: poco riconosciuto e passato in terzo e quarto piano nonostante produca (ce lo dicono i dati) sia danni sanitari che danni ambientali. Ma c’è di più: una chiave di lettura secondo me molto più interessante.
Tutte le risposte e le soluzioni messe in campo per rispondere al problema, mirano a regolamentare l’eccesso di rumore ma non tutelano affatto il diritto al silenzio (quello umano, che non è mai assoluto e misura almeno 10 decibel).
Per cui, il paradosso che ci troviamo ad affrontare è questo: asfalto fonoassorbente e pneumatici a basso impatto sonoro andranno ad abbassare la soglia dell’inquinamento acustico stradale – e questo è un bene – ma tutto ciò che è sotto la soglia stabilita dalle norme (65/55 decibel in Italia), anche se è un sottofondo costante che esilia il silenzio dalle nostre vite, non rientra nella definizione di inquinamento acustico e non viene considerato un problema.
Eppure, abbiamo un disperato bisogno anche di questo: non solo di “meno rumore”, ma anche di “più silenzio”. Basti pensare al tema della musica passiva (o parassitaria): quella che volenti o nolenti dobbiamo sorbirci in buona parte dei luoghi pubblici e contro cui, anni fa, iniziò a schierarsi anche un fior di musicista come Nicola Piovani. Già, proprio un musicista, pensate un po’. Perché se c’è una cosa che un musicista sa bene è che per nascere, la musica ha bisogno di silenzio.
Nelle ultime settimane, la notizia dell’alluvione in Emilia Romagna ha ampiamente monopolizzato i palcoscenici mediatici. E il mondo dei social che – ormai – fa parte a tutti gli effetti del flusso informativo.
Sotto i nostri occhi sono state riversate a ciclo continuo storie di catastrofi personali e storie di eroi. Il pilota giapponese di Formula 1 che va a spalare fango insieme agli altri, la disperazione delle famiglie rimaste senza un tetto, la polemica su Bruce Springsteen che non parla dell’alluvione ecc. Insomma: la solita copertura fatta non per tanto per informare quanto per alimentare il voyeurismo del pubblico. Avremmo potuto – noi giornalisti – affrontare il tema in modo diverso, cioè più utile? La risposta è sì.
Punto primo: uscire dal mito dell’Eroe e dal mito della Vittima
“Felice è il popolo che non ha bisogno di eroi” scriveva Bertolt Brecht. Personalmente, sono più che d’accordo con lui e mi viene di completare la frase aggiungendo: “Felice il popolo che non ha bisogno né di eroi né di vittime”. Lo dico da giornalista, ma anche – soprattutto – in quanto portavoce di una corrente, il giornalismo costruttivo, che è nato con l’obiettivo di uscire da questo tipo di narrazione.
Perché? Perché non serve. Chi ha qualche nozione di morfologia della fiaba, sa che le fiabe hanno bisogno di principi, orchi, principesse: di Vittime e di Eroi, ovvero di “ruoli”. La realtà, però, è diversa. Non è una fiaba e ha bisogno di essere raccontata in modo diverso. Partendo da un colpo d’occhio più ampio, ottenuto con grandangolo, che aiuti a calare ogni avvenimento all’interno di un trend. Perché solo così è possibile capire realmente come stanno le cose e passare, poi, alle domande successive: dove stiamo andando? Cosa possiamo fare per migliorare?
Un esempio: i morti per alluvione. Partire dai numeri
Qualche anno fa, in piena pandemia, i media gridavano alla catastrofe parlando dell’ecatombe scatenata in India e in Bangladesh dal ciclone Amphan. In realtà, il ciclone aveva fatto grandi distastri ma confrontando il numero dei morti (118) con le vittime provocate dai cicloni precedenti, la visione si ribalta: quello che emerge, cioè, è un miglioramente radicale innescato da cambiamenti virtuosi (nella gestione degli eventi estremi) che purtroppo non vengono mai raccontati.
Partendo da qui, possiamo tracciare una panoramica di segno diverso sulla situazione in Emilia Romagna, dove i morti sono stati 15. Un numero ben diverso dai 160 morti che un episodio simile ha provocato nel Sarno nel 1998, dai 318 morti dell’alluvione di Salerno del ’54 o dalle 80 vittime del Polesine, tre anni prima (giusto per citare qualche cifra). Perché? Perché stiamo imparando a gestire – e anticipare – le emergenze in modo migliore. Perché la nostra Protezione Civile ha un livello di preparazione che viene portato in palmo di mano anche in contesti internazionali.
E’da qui che bisogna partire per fare il passo successivo e per chiederci cosa avremmo potuto fare per evitare i 15 morti di Rimini. Creando un modello di gestione delle emergenze basato su esempi scalabili, che ci aiutino ad affrontare meglio questi episodi quando ricapiteranno in futuro.
Come? Adattando le città ai cambiamenti climatici in corso (ma anche a una fragilità idrogeologica che abbiamo sempre avuto) con il recupero della permeabilità del suolo attraverso sistemi di drenaggio sostenibile. Vedi il modello sponge city, nato in Cina e a cui, attualmente, guardano anche città come New York (o come Glasgow e Manchester, in Europa). Creando vasche sotterranee di raccolta delle acque negli spazi pubblici (come già si è fatto a Barcellona e a Rotterdam) ed evitando l’utilizzo dei piani interrati. Ripristinando le aree di esondazione naturale dei fiumi e supportando i corsi d’acqua con casse di espansione (se ne era già parlato per il fiume Misa, molto prima dell’ultima alluvione nelle Marche, ma nulla è stato fatto tra processi e pastoie burocratiche). Monitorando il divieto di edificazione in aree a rischio. Creando un sistema di messaggistica più efficace, che consenta una trasmissione più rapida e capillare delle allerte: lo si è fatto a Durban, in Sudafrica, mettendo a punto un’efficace piattaforma digitale di chat di gruppo.
La cattiva notizia è che molto deve ancora essere fatto. La buona notizia è che molto è già stato fatto e molto può essere fatto.
Tra le tante cose davvero belle di questo intensissimo periodo di lavoro, c’è il fatto che sto collaborando con l’Università Statale di Milano a un progetto che mi vede coinvonta come giornalista insieme a docenti e ricercatori del dipartimento di Scienze della Terra per un corso sull’Economia Circolare rivolto agli studenti delle scuole superiori.
La nostra prima incursione ha avuto luogo un paio di settimane fa nella Bergamasca dove abbiamo tenuto un corso davvero disruptive su problemi e soluzioni.
Dei contenuti che sono emersi, ho parlato stamattina sugli schermi di Teletruria dove ho affrontato il tema – difficile ma nevralgico – del costo reale dell’energia pulita considerata dal punto di vista del LCA (analisi del ciclo di vita): uno strumento che misura l’impatto ambientale non solo in base alle emissioni prodotte o evitate in loco ma anche in base alle fasi di costruzione (approvigionamento delle materie prime necessarie, estrazione mineraria in primis) e smaltimento.
Nell’arco di una prospettiva olistica, quindi. Un tema a cui – io che in quanto giornalista costruttiva mi occupo di “soluzioni” – tengo moltissimo perché trovare UNA soluzione non basta (così come, nei gialli, non basta trovare un supposto assassino) se poi la soluzione – applicata senza cognizione di causa – rischia di fare più male che bene.