Cos’è l’economia circolare e perché riciclare (bene) i rifiuti non basta

Quest’anno ho iniziato a collaborare con l’Università Statale di Milano come docente nell’ambito di un corso – finanziato dal PNRR – sull’economia circolare. Insieme ad alcuni docenti della facoltà di Scienze della Terra, sto approfondendo temi nevralgici come l’impatto ambientale della transizione energetica e l‘esigenza di un approccio realistico ai consumi e all’economia circolare.

Cos’è, concretamente, l’economia circolare? Secondo la definizione del Parlamento Europeo, si tratta di un “modello di produzione e consumo che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali il più a lungo possibile”.  Modello di consumo ma anche di produzione, quindi: lo sottolineo perché questo aspetto porta alla luce due tipi di problemi.

Il primo è la differenza tra reale e percepito. Se chiedessimo cos’è l’economia circolare a una persona presa a caso, con ogni probabilità ci sentiremmo rispondere che si tratta di un modello di riciclo e di corretto smaltimento dei rifiuti. Raramente si fa riferimento alla produzione e questo è un problema.

Secondo problema: l’economia circolare riguarda anche la produzione, è vero, ma finché il modello produttivo inseguirà la chimera della crescita continua (con ovvie ricadute sull’aumento dell’obsolescenza dei prodotti), non ci potrà mai essere vera e propria economia circolare.

Di questi temi ho parlato oggi su Teletruria, partendo da due esempi concreti che ci fanno capire in modo molto concreto qual è l’impatto ambientale dei nostri consumi.

 

Il mondo del lavoro e noi tra great resignation, quiet quitting e AI

Che il mondo del lavoro stia cambiando non è certo un mistero. La pandemia – e il macroscopico sviluppo dello smart working, di seguito – ha fatto da acceleratore ma molte trasformazioni erano già in atto da tempo. A partire dalla Great Resignation – il fenomeno delle Grandi Dimissioni – già presente negli USA da prima della pandemia e attualmente diffuso anche in Europa (Italia compresa).

Le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro ci obbligano a familiarizzare con un nuovo vocabolario, che fa da veicolo a ulteriori tendenze. Sia che si parli di Grandi Dimissioni sia che si parli di quiet quitting, tuttavia, un denominatore comune c’è: il nostro rapporto con il mondo del lavoro sta cambiando. Stiamo iniziando a chiedere – e a pretendere – qualcosa in più e questo qualcosa (“il pane e le rose”, in parte) porta alla luce alcuni aspetti della hustle culture – il modello iperproduttivo tossico per eccellenza – che dobbiamo e possiamo cambiare.

Il panorama lavorativo attuale è complesso, non c’è che dire, e lo complicano ulteriormente i dilemmi innescati dagli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale. L’AI ci ruberà il lavoro? Dovremo prepararci a un mondo in cui a lavorare saranno i robot? Nel caso, quali potrebbero essere le soluzioni possibili sia in termini economici (reddito universale, ad esempio) sia in termini identitari, considerando che la nostra cultura lavorativa attuale vede una vera e propria identificazione dell’individuo con la sua professione?

Di tutti questi aspetti ho parlato oggi su Teletruria.

Il disarmo climatico è la risposta all’impatto delle guerre sul clima

cos'è il disarmo climatico
Raramente le manifestazioni del movimento pacifista intersecano l’attivismo di stampo ambientalista. Eppure tra guerre e problemi ambientali esiste un legame di perfetta reciprocità (no, diciamola fuori dai denti: un circolo vizioso).
I cambiamenti climatici incrementano il numero dei conflitti – ed esasperano quelli già esistenti – dando origine a flussi migratori sempre più imponenti. La Convenzione di Ginevra non parla ancora di “rifugiati climatici” ma, di fatto, tant’è: “le persone sfollate nel contesto di disastri e cambianenti climatici” (la definizione attuale è questa) sono state quasi 24 milioni solo nel 2021. E secondo le proiezioni, potrebbero diventare 220 milioni entro il 2050.
D’altro canto, anche le guerre hanno un’impatto sui cambiamenti climatici. Se ragionassimo in termini di “impronta carbonica” come si fa per le industrie (e quella della guerra è un’industria!) scopriremmo, per esempio, che l’esercito degli Stati Uniti (uno dei più grandi al mondo) ha un’impronta carbonica superiore a quella di 140 Paesi. Il discorso, poi, si amplia se consideriamo l’impatto delle guerre sulla distruzione degli ecosistemi (una foresta distrutta non produce più ossigeno e rilascia tonnellate di carbonio) e sulle ricostruzioni postbelliche. Che implicano produzione di CO2.
E allora? Come uscirne? I conflitti fanno parte della storia umana ma quello che possiamo fare è cambiarne la gestione costruendo le premesse perché le risposte alle guerre non siano soluzioni di stampo militare.
E’in questo senso che si è sviluppato il concetto di “Disarmo climatico”. Una risposta lenta e complessa che, per svilupparsi, ha più che mai bisogno della società civile. E anche dei media perché per orientare la società civile verso azioni mirate, serve un’informazione corretta. In sintesi, come ho detto più volte, occorre in parte cambiare e in parte integrare l’attuale narrazione dei cambiamenti climatici.
Ne ho parlato stamattina su Teletruria.

Il mio intervento al Festival del giornalismo di Ronchi dei Legionari

Martina Fragale al Festival del Giornalismo

A giugno, insieme a Silvio Malvolti, sono stata tra gli ospiti del Festival del giornalismo di Ronchi dei Legionari: l’appuntamento annuale organizzato in provincia di Gorizia dall’Associazione Leali delle Notizie.

Nel mio intervento (accreditato come corso presso l’Ordine dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia) ho parlato – come sempre – di giornalismo costruttivo, concentrandomi però su temi come sostenibilità ambientale e crisi climatica. Il legame tra giornalismo costruttivo e tematiche così nodali è stato, di fatto, involontariamente sottolineato dalle linee guida sulla comunicazione dei cambiamenti climatici dellIPCC (l’Organizzazione intergovernativa sul cambiamento climatico), il forum scientifico fondato nel ’98 da due organismi delle Nazioni Unite).

Molto probabilmente, i promotori delle linee guida non conoscono il giornalismo costruttivo: ciò che emerge dal documento è però un’esplicita richiesta di modalità di comunicazione che rispondono in toto a quelle che sono le basi del giornalismo costruttivo. Ne avevo già parlato qualche mese fa sugli schermi di Teletruria.

Da parte dei giornalisti presenti al corso, ho riscontrato un interesse palpabile che spero si traduca in stimoli alla ricerca e alla trasformazione delle modalità di narrazione attuali. Alla fine del mio intervento, sono stata intervistata dall’organizzazione del Festival del giornalismo e ho brevemente riassunto la nostra esperienza editoriale: dalla fondazione di BuoneNotizie.it (vent’anni fa) all’incontro con la ricca e composita galassia del giornalismo costruttivo.

Cos’è l’inquinamento acustico e perché rappresenta un problema concreto

Un po’ come la light pollution, anche l’inquinamento acustico è una forma di inquinamento Cenerentola: poco riconosciuto e passato in terzo e quarto piano nonostante produca (ce lo dicono i dati) sia danni sanitari che danni ambientali. Ma c’è di più: una chiave di lettura secondo me molto più interessante.
Tutte le risposte e le soluzioni messe in campo per rispondere al problema, mirano a regolamentare l’eccesso di rumore ma non tutelano affatto il diritto al silenzio (quello umano, che non è mai assoluto e misura almeno 10 decibel).
Per cui, il paradosso che ci troviamo ad affrontare è questo: asfalto fonoassorbente e pneumatici a basso impatto sonoro andranno ad abbassare la soglia dell’inquinamento acustico stradale – e questo è un bene – ma tutto ciò che è sotto la soglia stabilita dalle norme (65/55 decibel in Italia), anche se è un sottofondo costante che esilia il silenzio dalle nostre vite, non rientra nella definizione di inquinamento acustico e non viene considerato un problema.
Eppure, abbiamo un disperato bisogno anche di questo: non solo di “meno rumore”, ma anche di “più silenzio”. Basti pensare al tema della musica passiva (o parassitaria): quella che volenti o nolenti dobbiamo sorbirci in buona parte dei luoghi pubblici e contro cui, anni fa, iniziò a schierarsi anche un fior di musicista come Nicola Piovani. Già, proprio un musicista, pensate un po’. Perché se c’è una cosa che un musicista sa bene è che per nascere, la musica ha bisogno di silenzio.
Ne ho parlato sugli schermi di Teletruria.

Alluvione in Emilia Romagna: avremmo potuto parlarne in modo diverso?

Nelle ultime settimane, la notizia dell’alluvione in Emilia Romagna ha ampiamente monopolizzato i palcoscenici mediatici. E il mondo dei social che – ormai – fa parte a tutti gli effetti del flusso informativo.

Sotto i nostri occhi sono state riversate a ciclo continuo storie di catastrofi personali e storie di eroi. Il pilota giapponese di Formula 1 che va a spalare fango insieme agli altri, la disperazione delle famiglie rimaste senza un tetto, la polemica su Bruce Springsteen che non parla dell’alluvione ecc. Insomma: la solita copertura fatta non per tanto per informare quanto per alimentare il voyeurismo del pubblico. Avremmo potuto – noi giornalisti – affrontare il tema in modo diverso, cioè più utile? La risposta è sì.

Punto primo: uscire dal mito dell’Eroe e dal mito della Vittima

“Felice è il popolo che non ha bisogno di eroi” scriveva Bertolt Brecht. Personalmente, sono più che d’accordo con lui  e mi viene di completare la frase aggiungendo: “Felice il popolo che non ha bisogno né di eroi né di vittime”. Lo dico da giornalista, ma anche – soprattutto – in quanto portavoce di una corrente, il giornalismo costruttivo, che è nato con l’obiettivo di uscire da questo tipo di narrazione.

Perché? Perché non serve. Chi ha qualche nozione di morfologia della fiaba, sa che le fiabe hanno bisogno di principi, orchi, principesse: di Vittime e di Eroi, ovvero di “ruoli”. La realtà, però, è diversa. Non è una fiaba e ha bisogno di essere raccontata in modo diverso. Partendo da un colpo d’occhio più ampio, ottenuto con grandangolo, che aiuti a calare ogni avvenimento all’interno di un trend. Perché solo così è possibile capire realmente come stanno le cose e passare, poi, alle domande successive: dove stiamo andando? Cosa possiamo fare per migliorare?

Un esempio: i morti per alluvione. Partire dai numeri

Qualche anno fa, in piena pandemia, i media gridavano alla catastrofe parlando dell’ecatombe scatenata in India e in Bangladesh dal ciclone Amphan. In realtà, il ciclone aveva fatto grandi distastri ma confrontando il numero dei morti (118) con le vittime provocate dai cicloni precedenti, la visione si ribalta: quello che emerge, cioè, è un miglioramente radicale innescato da cambiamenti virtuosi (nella gestione degli eventi estremi) che purtroppo non vengono mai raccontati.

Partendo da qui, possiamo tracciare una panoramica di segno diverso sulla situazione in Emilia Romagna, dove i morti sono stati 15. Un numero ben diverso dai 160 morti che un episodio simile ha provocato nel Sarno nel 1998, dai 318 morti dell’alluvione di Salerno del ’54 o dalle 80 vittime del Polesine, tre anni prima (giusto per citare qualche cifra). Perché? Perché stiamo imparando a gestire – e anticipare – le emergenze in modo migliore. Perché la nostra Protezione Civile ha un livello di preparazione che viene portato in palmo di mano anche in contesti internazionali.

E’da qui che bisogna partire per fare il passo successivo e per chiederci cosa avremmo potuto fare per evitare i 15 morti di Rimini. Creando un modello di gestione delle emergenze basato su esempi scalabili, che ci aiutino ad affrontare meglio questi episodi quando ricapiteranno in futuro.

Come? Adattando le città ai cambiamenti climatici in corso (ma anche a una fragilità idrogeologica che abbiamo sempre avuto) con il recupero della permeabilità del suolo attraverso sistemi di drenaggio sostenibile. Vedi il modello sponge city, nato in Cina e a cui, attualmente, guardano anche città come New York (o come Glasgow e Manchester, in Europa). Creando vasche sotterranee di raccolta delle acque negli spazi pubblici (come già si è fatto a Barcellona e a Rotterdam) ed evitando l’utilizzo dei piani interrati. Ripristinando le aree di esondazione naturale dei fiumi e supportando i corsi d’acqua con casse di espansione (se ne era già parlato per il fiume Misa, molto prima dell’ultima alluvione nelle Marche, ma nulla è stato fatto tra processi e pastoie burocratiche). Monitorando il divieto di edificazione in aree a rischio. Creando un sistema di messaggistica più efficace, che consenta una trasmissione più rapida e capillare delle allerte: lo si è fatto a Durban, in Sudafrica, mettendo a punto un’efficace piattaforma digitale di chat di gruppo.

La cattiva notizia è che molto deve ancora essere fatto. La buona notizia è che molto è già stato fatto e molto può essere fatto.

Ne ho parlato ieri su Teletruria.

Il lato oscuro della transizione energetica: quanto è pulita l’energia pulita?

Tra le tante cose davvero belle di questo intensissimo periodo di lavoro, c’è il fatto che sto collaborando con l’Università Statale di Milano a un progetto che mi vede coinvonta come giornalista insieme a docenti e ricercatori del dipartimento di Scienze della Terra per un corso sull’Economia Circolare rivolto agli studenti delle scuole superiori.
La nostra prima incursione ha avuto luogo un paio di settimane fa nella Bergamasca dove abbiamo tenuto un corso davvero disruptive su problemi e soluzioni.
Dei contenuti che sono emersi, ho parlato stamattina sugli schermi di Teletruria dove ho affrontato il tema – difficile ma nevralgico – del costo reale dell’energia pulita considerata dal punto di vista del LCA (analisi del ciclo di vita): uno strumento che misura l’impatto ambientale non solo in base alle emissioni prodotte o evitate in loco ma anche in base alle fasi di costruzione (approvigionamento delle materie prime necessarie, estrazione mineraria in primis) e smaltimento.
Nell’arco di una prospettiva olistica, quindi. Un tema a cui – io che in quanto giornalista costruttiva mi occupo di “soluzioni” – tengo moltissimo perché trovare UNA soluzione non basta (così come, nei gialli, non basta trovare un supposto assassino) se poi la soluzione – applicata senza cognizione di causa – rischia di fare più male che bene.

Guerre dell’acqua: cosa sono e cosa è necessario fare per evitare che ci travolgano

Del fatto che l’acqua sia una risorsa preziosa ce ne stiamo rendendo conto tutti a suon di episodi siccitosi. Sappiamo anche che la nostra rete idrica è un colabrodo e che in certe province (Frosinone) le perdite raggiungono l’80%. Detto ciò, siamo ancora – almeno per ora – all’interno di una bolla fortunata in cui il “grosso” dei conflitti legati all’acqua si sente relativamente poco.
Parlo volutamente di conflitti perché le “guerre dell’acqua” a volte sono guerre vere e proprie e a volte, come nel caso del water grabbing, sono conflitti. Molte le cause, tra cui gioca senz’altro un ruolo di primo piano lo ha il combo tra:
l’aumento della domanda (incremento della popolazione mondiale, democratizzazione del consumo nelle aree più ricche, con conseguente aumento degli utenti effettivi e nuove abitudini igieniche. Risultato: +1% della domanda di acqua ogni anno, da quarant’anni a questa parte, ma da qui al 2030 l’incremento potrebbe essere anche superiore)
la riduzione dell’offerta (ovvero incremento delle temperature, degli episodi siccitosi e incapacità, almeno per il momento, di contenere e riutilizzare su grande scala, le risorse generate dalle cosiddette bombe d’acqua).
Questa è la situazione. Le guerre dell’acqua sono sempre di più (202 negli ultimi due anni) e gli episodi di water grabbing (che spesso vanno a braccetto con clamorosi esempi di greenwashing) pullulano. Detto ciò: what now? Quali sono le soluzioni? Come si risolvono i conflitti? In buona parte giocando d’anticipo senza aspettare che la frittata sia fatta.
Ne ho parlato oggi sugli schermi di Teletruria.

Cambiare la narrazione dei cambiamenti climatici parlando (anche) di soluzioni di adattamento

Cambiare la narrazione dei cambiamenti climatici alle radici è fondamentale. Ed è fondamentale farlo rientrando in quella che in gergo si chiama “comunicazione del rischio“: una strategia comunicativa che viene messa in campo in situazioni di rischio oggettivo (guerre, catastrofi naturali, pandemie) con l’obiettivo specifico di rendere le persone in grado di rispondere in modo “utile” all’emergenza, sul piano concreto.
Detta in pillole: se sono su un’auto e qualcuno si mette a urlarmi nelle orecchie “finirai in un burrone!”, mi coprirò gli occhi, inizierò a urlare ed effettivamente finirò in un burrone. Ovvero: non farò nulla. Se invece mi viene detto: “se vai avanti per questa strada finirai in un burrone tra due minuti, ma se giri da questa parte ti salverai la pelle”, presumibilmente sterzerò dalla parte giusta. O comunque farò in modo di assumere la guida e di prendere la situazione in mano.
Questa metafora vale per qualsiasi situazione di emergenza, crisi climatica inclusa. Ecco perché è importante parlare anche di soluzioni: perché le soluzioni sono un “si può fare” che mobilita all’azione e la orienta. Un aspetto che, nel bel mezzo di cotanta informazione spettacolarizzata, abbiamo perso di vista. Questo vale sia nel caso di soluzioni macro (quelle che puntano alla riduzione delle emissioni e al loro riassorbimento) sia per le cosiddette soluzioni di adattamento. Quelle, cioè, che ci aiutano da una parte a capire che l’impatto della crisi climatica è “qui e ora”, e dall’altra ci consentono di mitigarne gli effetti. Marco Merola ha approfondito il tema nel suo bellissimo progetto: Adaptation, appunto (nomen omen).
Ieri, sugli schermi di Teletruria, ho approfondito il tema.

Convivenza uomo – grandi carnivori in Italia: che fare?

Quando mi capitano sott’occhio video di leoni che abbracciano neonati con musichette edificanti di sottofondo, confesso che di solito ho reazioni scomposte.
Anche se video di questo tipo circolano sulle pagine di amanti degli animali, paradossalmente sono convinta che questo immaginario disneyano agli animali faccia più male che bene, perché alimenta una percezione edenica, romantica e antropocentrica che non ci aiuta ad accettare e amare l’animale per quello che è. Un discorso che vale per tutta la natura, in realtà, che non è “a misura d’uomo”. Detta fuori dai denti, il leone che anziché fare pucci-pucci al neonato se lo mangia non è cattivo: semplicemente, non è uscito da un cartone animato di Walt Disney. È un leone, cioè una grande carnivoro in cima alla catena alimentare. E va benissimo così.
Oggi, sugli schermi di Teletruria, ho parlato dei grandi carnivori che popolano le montagne italiane e ho cercato di fare un po’ di luce sugli aspetti che possono rendere problematica la loro convivenza con noi e sulle soluzioni (politiche di adattamento ma anche switch mentali) che servono per aiutarci a convivere con loro nella porzione di mondo che abitiamo. Possibilmente, senza scadere nel paradosso per cui prima li aiutiamo a tornare con pratiche di rewilding e poi decidiamo che non ci vanno più bene perché (ohibò!) abbiamo scoperto che non sono dei peluche.