Un progetto per parlare di inquinamento luminoso e di cultura del buio

Sul tema del buio e dell’inquinamento luminoso, ho sempre avuto una vera e propria fissazione. Che ovviamente, nel tempo, si è trasformata in interesse giornalistico. Sei anni fa, insieme a Max Franceschini, ho aperto The Light Side of the Night: un portale di informazione sul tema della light pollution e delle sue conseguenze sull’ambiente ma anche sull’esigenza di costruire (o meglio: ri-costruire) una vera e propria cultura del buio.

Per qualche anno ho scritto, studiato e anche parlato di inquinamento luminoso. Ma a partire da quest’anno, ho deciso di fare un passo avanti e questa decisione ha a che vedere con un’esigenza, personale, di riportare il giornalismo là dove il giornalismo è nato: sulla strada. C’è qualcosa che negli ultimi anni abbiamo persocome mostrano i dati del Digital News Report – e questo qualcosa è la fiducia del pubblico nei media. Un problema complesso e multicausale che, secondo me, con l’arrivo dell’AI non farà che intensificarsi. Che fare, quindi? Come giornalista costruttiva sono abituata a sfoderare, ogni volta che posso, la nostra “sesta W”, il proverbiale “What now?” del giornalismo costruttivo. E la risposta che mi sono data è questa: dobbiamo ripartire dalla strada e tornare tanto a interrogare i problemi quanto a informare “scendendo in campo”.

Quest’esigenza è urgente, a maggior ragione, quando si parla di un problema non riconosciuto e minimizzato come l’inquinamento luminoso. Per la serie: se Maometto non va alla montagna, la montagna va a Maometto. Ho deciso così di creare degli itinerari notturni per parlare di inquinamento luminoso dal vivo, permettendo alle persone di toccare il problema con mano. Per farlo, ho coinvolto Georama Esplorazioni Contemporanee ed è così che, insieme a loro, è nato il progetto SI È SPENTO IL BUIO – Sentieri nella notte illuminata a giorno. Il primo dei nostri sentieri notturni sarà su Milano e partirà dall’unico cielo stellato visibile in città, la cupola del Planetario. Ma oltre a questo, abbiamo già in serbo altri itinerari. Del progetto, parleremo io e Carmelo Vanadia, di Georama, al Festival del Giornalismo di Ronchi dei Legionari, l’11 giugno. E intanto, nuove idee prendono forma.

Constructive Day 2025. A Roma si è parlato di giornalismo costruttivo

Constructive Day 2025

Venerdì 9 maggio sono stata a Roma per il Constructive Day 2025, dove si è parlato (molto e bene) di giornalismo costruttivo. E dove anch’io ho tenuto un intervento a proposito di un tema che, in quanto giornalista costruttiva, mi sta particolarmente a cuore. Ma andiamo con ordine. Cos’è il Costructive Day?

Il panorama del giornalismo costruttivo in Italia è, per fortuna, sempre più ricco. Fino a qualche anno fa, eravamo davvero in pochi a conoscere questa corrente e a cercare (faticosamente) di portarla avanti. Oggi siamo un po’di più. All’interno del panorama italiano, in ambito costruttivo gioca un ruolo fondamentale il Constructive Network, fondato sei anni fa da Assunta Corbo insieme ad altri colleghi. Il Constructive Network per certi aspetti ricorda l’esperienza francese di Réporters d’Espoirs, con la differenza che Réporters d’Espoirs ha iniziato a muovere i primi passi 22 anni fa, a Parigi, con un clamoroso riconoscimento da parte dell’UNESCO nel 2004.

Il Constructive Network indubbiamente è molto più giovane ma, come per Réporters d’Espoir rappresenta un’unione sinergica di giornalisti e professionisti della comunicazione attivi ognuno nel proprio ambito ma con una visione comune. Il Network conta, ad oggi, duecentosessanta adesioni. Che all’interno del panorama italiano non sono poche. Il Constructive Day – che si è tenuto a Roma, presso la sede di Palazzo Valentini – è stato una bella e interessante occasione per incontrarsi dal vivo. Con interventi di valore, tra cui – giusto per citare qualche nome – quelli Marco Merola (ideatore del webdoc ADAPTATION, in cui si raccontano progetti e storie di adattamento ai cambiamenti climatici), di Daniel Tarozzi (fondatore e direttore di Italia Che Cambia) e di Raffaele Lupoli, direttore di Economiacircolare.org. Non cito altri colleghi per amor di brevità, ma una menzione la merita senz’altro anche Marisandra Lizzi, autrice di Lettera a Jeff Bezos: dalle relazioni pubbliche alle relazioni umane. Come ho riscritto i principi di Amazon.

Tra i relatori della giornata, ci sono stata anch’io, con un intervento su un tema che – soprattutto nell’ultimo anno – è stato al centro delle mie riflessioni ovvero: la necessità, da parte di noi giornalisti costruttivi, di esercitare uno sguardo critico anche sulle soluzioni. C’è infatti una trappola, subdola e pericolosissima, in cui soprattutto noi – abituati a raccontare il problema dal punto di vista della soluzione – corriamo il rischio di cadere. La ricerca della “soluzione a tutti i costi” è infatti qualcosa che non funziona: che ci differenzia, sì, dal catastrofismo da cui vogliamo distinguerci, ma che allo stesso tempo rischia di trasformare il nostro lavoro da ricerca rigorosa a favoletta consolatoria. Le soluzioni (soluzioni valide ed efficaci, intendo) non esistono sempre. In certi casi sono work in progress. In altri casi, quelle che vengono presentate come soluzioni rappresentano solo uno specchietto per le allodole e un vero giornalista costruttivo dovrebbe smontarle anziché avvalorarle. Mi riferisco, per esempio, a molti aspetti della transizione energetica: il suo costo in termini di estrazione mineraria e di impatto ambientale indiretto, giusto per dirne una. In fondo, è lo stesso concetto di greenwashing che ci mostra come la ricerca di soluzioni debba essere costruita con inappuntabile rigore critico. Fare il pelo e il contropelo alle soluzioni e dubitare sempre: questo, secondo me, è un primo punto importante da cui dobbiamo partire.

C’è poi un secondo punto che ho voluto mettere in evidenza. La sesta W del giornalismo costruttivo è “what now?” ovvero: una volta analizzato il problema, cosa possiamo fare? La sesta W è l’elemento chiave del giornalismo costruttivo. Purché non venga presa come un dogma. Ci sono temi, per esempio, in cui – prima di accendere i riflettori sulle soluzioni – è fondamentale mantenere il focus sul problema. Analizzandolo con lucidità e anche enfatizzandolo in modo utile, se necessario. A questo proposito, ho parlato delle forme di “inquinamento Cenerentola”, quelle meno riconosciute, fra cui l’inquinamento luminoso. Su questo tema sto costruendo un progetto articolato, di cui parlerò prossimamente e che fa riferimento al mio sito The Light Side of the Night. L’inquinamento luminoso è un problema con la P maiuscola, che ha un forte impatto sull’ambiente, sulla salute e su altri aspetti nevralgici. Eppure, raramente l’inquinamento luminoso viene riconosciuto come un problema reale. Nella maggior parte dei casi, lo si declassa a fissazione di uno sparuto gruppo di astrofili. Ecco perché, in questo caso, come in altri casi, ritengo sia utile raccontare il problema aiutando i nostri lettori a percepirlo come tale, prima ancora di mettere in luce le soluzioni.

Personalmente, sto sempre più arrivando a una definizione del giornalismo costruttivo un po’meno centrata sulla ricerca delle soluzioni tout court e un po’più focalizzata su altri aspetti. Il giornalismo costruttivo come giornalismo “utile”, attento all’impatto della notizia e al legame – conseguente – fra informazione e azione. In fondo, sempre di giornalismo costruttivo si tratta.

Cos’è l’economia circolare e perché riciclare (bene) i rifiuti non basta

Quest’anno ho iniziato a collaborare con l’Università Statale di Milano come docente nell’ambito di un corso – finanziato dal PNRR – sull’economia circolare. Insieme ad alcuni docenti della facoltà di Scienze della Terra, sto approfondendo temi nevralgici come l’impatto ambientale della transizione energetica e l‘esigenza di un approccio realistico ai consumi e all’economia circolare.

Cos’è, concretamente, l’economia circolare? Secondo la definizione del Parlamento Europeo, si tratta di un “modello di produzione e consumo che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali il più a lungo possibile”.  Modello di consumo ma anche di produzione, quindi: lo sottolineo perché questo aspetto porta alla luce due tipi di problemi.

Il primo è la differenza tra reale e percepito. Se chiedessimo cos’è l’economia circolare a una persona presa a caso, con ogni probabilità ci sentiremmo rispondere che si tratta di un modello di riciclo e di corretto smaltimento dei rifiuti. Raramente si fa riferimento alla produzione e questo è un problema.

Secondo problema: l’economia circolare riguarda anche la produzione, è vero, ma finché il modello produttivo inseguirà la chimera della crescita continua (con ovvie ricadute sull’aumento dell’obsolescenza dei prodotti), non ci potrà mai essere vera e propria economia circolare.

Di questi temi ho parlato oggi su Teletruria, partendo da due esempi concreti che ci fanno capire in modo molto concreto qual è l’impatto ambientale dei nostri consumi.

 

Il disarmo climatico è la risposta all’impatto delle guerre sul clima

cos'è il disarmo climatico
Raramente le manifestazioni del movimento pacifista intersecano l’attivismo di stampo ambientalista. Eppure tra guerre e problemi ambientali esiste un legame di perfetta reciprocità (no, diciamola fuori dai denti: un circolo vizioso).
I cambiamenti climatici incrementano il numero dei conflitti – ed esasperano quelli già esistenti – dando origine a flussi migratori sempre più imponenti. La Convenzione di Ginevra non parla ancora di “rifugiati climatici” ma, di fatto, tant’è: “le persone sfollate nel contesto di disastri e cambianenti climatici” (la definizione attuale è questa) sono state quasi 24 milioni solo nel 2021. E secondo le proiezioni, potrebbero diventare 220 milioni entro il 2050.
D’altro canto, anche le guerre hanno un’impatto sui cambiamenti climatici. Se ragionassimo in termini di “impronta carbonica” come si fa per le industrie (e quella della guerra è un’industria!) scopriremmo, per esempio, che l’esercito degli Stati Uniti (uno dei più grandi al mondo) ha un’impronta carbonica superiore a quella di 140 Paesi. Il discorso, poi, si amplia se consideriamo l’impatto delle guerre sulla distruzione degli ecosistemi (una foresta distrutta non produce più ossigeno e rilascia tonnellate di carbonio) e sulle ricostruzioni postbelliche. Che implicano produzione di CO2.
E allora? Come uscirne? I conflitti fanno parte della storia umana ma quello che possiamo fare è cambiarne la gestione costruendo le premesse perché le risposte alle guerre non siano soluzioni di stampo militare.
E’in questo senso che si è sviluppato il concetto di “Disarmo climatico”. Una risposta lenta e complessa che, per svilupparsi, ha più che mai bisogno della società civile. E anche dei media perché per orientare la società civile verso azioni mirate, serve un’informazione corretta. In sintesi, come ho detto più volte, occorre in parte cambiare e in parte integrare l’attuale narrazione dei cambiamenti climatici.
Ne ho parlato stamattina su Teletruria.

Il mio intervento al Festival del giornalismo di Ronchi dei Legionari

Martina Fragale al Festival del Giornalismo

A giugno, insieme a Silvio Malvolti, sono stata tra gli ospiti del Festival del giornalismo di Ronchi dei Legionari: l’appuntamento annuale organizzato in provincia di Gorizia dall’Associazione Leali delle Notizie.

Nel mio intervento (accreditato come corso presso l’Ordine dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia) ho parlato – come sempre – di giornalismo costruttivo, concentrandomi però su temi come sostenibilità ambientale e crisi climatica. Il legame tra giornalismo costruttivo e tematiche così nodali è stato, di fatto, involontariamente sottolineato dalle linee guida sulla comunicazione dei cambiamenti climatici dellIPCC (l’Organizzazione intergovernativa sul cambiamento climatico), il forum scientifico fondato nel ’98 da due organismi delle Nazioni Unite).

Molto probabilmente, i promotori delle linee guida non conoscono il giornalismo costruttivo: ciò che emerge dal documento è però un’esplicita richiesta di modalità di comunicazione che rispondono in toto a quelle che sono le basi del giornalismo costruttivo. Ne avevo già parlato qualche mese fa sugli schermi di Teletruria.

Da parte dei giornalisti presenti al corso, ho riscontrato un interesse palpabile che spero si traduca in stimoli alla ricerca e alla trasformazione delle modalità di narrazione attuali. Alla fine del mio intervento, sono stata intervistata dall’organizzazione del Festival del giornalismo e ho brevemente riassunto la nostra esperienza editoriale: dalla fondazione di BuoneNotizie.it (vent’anni fa) all’incontro con la ricca e composita galassia del giornalismo costruttivo.

Cos’è l’inquinamento acustico e perché rappresenta un problema concreto

Un po’ come la light pollution, anche l’inquinamento acustico è una forma di inquinamento Cenerentola: poco riconosciuto e passato in terzo e quarto piano nonostante produca (ce lo dicono i dati) sia danni sanitari che danni ambientali. Ma c’è di più: una chiave di lettura secondo me molto più interessante.
Tutte le risposte e le soluzioni messe in campo per rispondere al problema, mirano a regolamentare l’eccesso di rumore ma non tutelano affatto il diritto al silenzio (quello umano, che non è mai assoluto e misura almeno 10 decibel).
Per cui, il paradosso che ci troviamo ad affrontare è questo: asfalto fonoassorbente e pneumatici a basso impatto sonoro andranno ad abbassare la soglia dell’inquinamento acustico stradale – e questo è un bene – ma tutto ciò che è sotto la soglia stabilita dalle norme (65/55 decibel in Italia), anche se è un sottofondo costante che esilia il silenzio dalle nostre vite, non rientra nella definizione di inquinamento acustico e non viene considerato un problema.
Eppure, abbiamo un disperato bisogno anche di questo: non solo di “meno rumore”, ma anche di “più silenzio”. Basti pensare al tema della musica passiva (o parassitaria): quella che volenti o nolenti dobbiamo sorbirci in buona parte dei luoghi pubblici e contro cui, anni fa, iniziò a schierarsi anche un fior di musicista come Nicola Piovani. Già, proprio un musicista, pensate un po’. Perché se c’è una cosa che un musicista sa bene è che per nascere, la musica ha bisogno di silenzio.
Ne ho parlato sugli schermi di Teletruria.

Inquinamento luminoso e difesa del cielo buio: perché è urgente contrastare la light pollution

La settimana scorsa, nell’appuntamento televisivo settimanale di cui sono ospite sugli schermi di Teletruria, ho parlato di un tema che mi sta particolarmente a cuore: inquinamento luminoso e difesa del cielo buio.

Sul problema della light pollution e sull’esigenza di alfabetizzazione intorno al tema del buio, qualche anno fa ho creato un progetto insieme al regista e fotografo Max Franceschini. Sul sito The light side of the night abbiamo provato a dare vita a un progetto di “storytelling del buio” declinato nelle tre sezioni: Imparare a leggere il buio – Storie nel buio – La Notte dei popoli.

Come spiego in questo video, parlare di inquinamento luminoso e di cieli bui è molto più difficile che parlare di altre forme di inquinamento. Viviamo, da sempre, immersi in una cultura della Luce che dal secondo Dopoguerra si è progressivamente trasformata in una cultura dell’illuminazione. Difendere il nostro “buio vitale”, contrastare l’inquinamento luminoso e tutelare un bene clamorosamente in via di estinzione come il cielo buio non è un problema di nicchia condiviso da un eccentrico gruppo di astrofili o da controculture darkettone.

Nel mio intervento su Teletruria spiego cos’è l’inquinamento luminoso, quali sono le conseguenze della light pollution sulla fauna notturna e sull’uomo e provo ad abbozzare una timida panoramica sulle soluzioni possibili parlando di chi sta tentando di fare qualcosa.

Piccola e doverosa postilla: difendere il buio non significa sposare il lato oscuro ma cercare di recuperare quel bilanciamento tra Luce e Oscurità che oggigiorno è venuto a mancare. Come sostiene Tanizaki nel suo Libro d’Ombra – parlandone peraltro in modo meraviglioso – difendere il diritto del Buio a esistere significa anche, implicitamente, tutelare il ruolo della Luce.

Space economy e ambiente: un’opportunità purché lo spazio non si trasformi in un nuovo Far West

economia dello spazio cos'è

Oggi, sugli schermi di Teletruria (dove sono ospite come direttore responsabile di BuoneNotizie.it e come docente dell’Associazione Italiana Giornalismo Costruttivo) ho parlato di space economy. O meglio: di new space economy.

La corsa allo spazio è iniziata molto tempo fa e già allora, dall’era del lancio dello Sputnik, lo sviluppo delle operazioni spaziali implicava anche la nascita di una nuova economia. Solo oggi però, sulla scia dello sviluppo delle nuove tecnologie e dell’ingresso dei privati, l’economia dello spazio acquisisce un peso che, in prospettiva, potrebbe diventare trainante. Con aspetti potenzialmente positivi per quanto riguarda il cosiddetto segmento downstream della space economy. I dati che ci arrivano dallo spazio vanno infatti a nutrire molti rami: dal monitoraggio dei problemi ambientali (deforestazione, desertificazione) alla prevenzione e alla gestione delle emergenze per non parlare delle implicazioni sul piano dell’agricoltura di precisione, dei trasporti ecc.

C’è però anche un rovescio della medaglia. Per quanto – sul piano quantitativo – i rifiuti umani nello spazio rappresentino un nonnulla, in termini umani la presenza di un problema rifiuti spaziali (moltissimi intorno alla Luna e alla Terra) porta alla luce qualcosa di cui dobbiamo prendere atto. Se lo spazio si tarsformerà nell’ennesimo Far West in cui trasferiremo le logiche coloniali che hanno generato mostri qui sulla Terra, se lo trasformeremo in una falsa pagina bianca in cui copincollare tutto ciò che non ha funzionato quaggiù, non sarà “un grande passo per l’umanità”: sarà solo l’ennesima débacle.

Borghi italiani, spopolamento e city quitters. Lo smart working aprirà nuove soluzioni?

Su Teletruria, questa settimana ho parlato di un tema che mi sta molto a cuore: i borghi italiani, il problema del loro spopolamento e le soluzioni sul piatto della bilancia. Un tema che – come sempre – ho affrontato con gli strumenti del giornalismo costruttivo.
Diciamocelo: la pandemia ha fatto capire a molti di noi, che le città possono diventare delle gabbie. “Conigliere” le ha definite una persona che ho incontrato tempo fa in montagna e non posso che dargli ragione.
Sulla scia di questa “claustrofobia indotta” ma anche – soprattutto – seguendo le opportunità fornite dal lavoro da remoto, molti hanno lasciato le città per trasferirsi nei borghi. Di city quitters, si parlava già prima ma il fenomeno si è amplificato e ha messo sul piatto della bilancia delle opportunità inedite che alcuni borghi hanno saputo sfruttare.
Se il legame tra lavoro da remoto e le politiche di ripopolamento dei borghi creerà solo un flusso transitorio, in grado di realizzare quella destagionalizzazione dei flussi turistici che si è sempre cercato di innescare, questa sarà certamente una buona notizia ma non rappresenterà la soluzione del problema. Le soluzioni iniziano a nascere sul serio solo quando alcuni city quitters non “passano” dai borghi, ma decidono di fermarsi e di mettere radici. E’su questo – proprio lì, sul confine dell’ibridazione – e non nella dicotomia romantica città/natura – che bisogna puntare perché i borghi italiani non muoiano.

Tra realtà e percezione: quali sono le migliori pratiche per ridurre le emissioni di CO2

Perils of Perception ridurre emissioni CO2
Ridurre le emissioni di CO2: ci proviamo in tanti – sul piano individuale – ma non sempre nel modo giusto. C’è un divario, infatti, tra realtà e percezione: tra pratiche green di cui sovrastimiamo l’importanza e pratiche di cui sottostimiamo l’impatto ma che – messe sul piatto della bilancia – sono più incisive di altre.
Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, si dice. In questo senso, tra l’ambientalismo di facciata e l’attenzione all’ambiente vera e propria (personalmente odio gli “ismi”) c’è di mezzo la Conoscenza di ciò che serve di più e ciò che serve di meno. E anche la coscienza del fatto che le pratiche con una reale incidenza non possono prescindere dalla convergenza tra cittadini e politica.
Questa mattina, sugli schermi di Teletruria, ho parlato di “Perils of perception”: un’indagine che IPSOS conduce ogni anno per studiare, appunto, il divario tra realtà e percezione. L’ultimo sondaggio verteva proprio sul tema delle emissioni di CO2 e ha dato risultati molto interessanti.
A latere, visto che si tratta di punti nodali che emergono dall’indagine IPSOS, ho parlato anche della situazione demografica italiana, dell’eccessivo numero di auto pro-capite presenti nel nostro Paese e di cosa si potrebbe fare in merito. Un’analisi in cui il punto di partenza sono sempre gli strumenti di indagine forniti dal giornalismo costruttivo.