Inquinamento luminoso e difesa del cielo buio: perché è urgente contrastare la light pollution

La settimana scorsa, nell’appuntamento televisivo settimanale di cui sono ospite sugli schermi di Teletruria, ho parlato di un tema che mi sta particolarmente a cuore: inquinamento luminoso e difesa del cielo buio.

Sul problema della light pollution e sull’esigenza di alfabetizzazione intorno al tema del buio, qualche anno fa ho creato un progetto insieme al regista e fotografo Max Franceschini. Sul sito The light side of the night abbiamo provato a dare vita a un progetto di “storytelling del buio” declinato nelle tre sezioni: Imparare a leggere il buio – Storie nel buio – La Notte dei popoli.

Come spiego in questo video, parlare di inquinamento luminoso e di cieli bui è molto più difficile che parlare di altre forme di inquinamento. Viviamo, da sempre, immersi in una cultura della Luce che dal secondo Dopoguerra si è progressivamente trasformata in una cultura dell’illuminazione. Difendere il nostro “buio vitale”, contrastare l’inquinamento luminoso e tutelare un bene clamorosamente in via di estinzione come il cielo buio non è un problema di nicchia condiviso da un eccentrico gruppo di astrofili o da controculture darkettone.

Nel mio intervento su Teletruria spiego cos’è l’inquinamento luminoso, quali sono le conseguenze della light pollution sulla fauna notturna e sull’uomo e provo ad abbozzare una timida panoramica sulle soluzioni possibili parlando di chi sta tentando di fare qualcosa.

Piccola e doverosa postilla: difendere il buio non significa sposare il lato oscuro ma cercare di recuperare quel bilanciamento tra Luce e Oscurità che oggigiorno è venuto a mancare. Come sostiene Tanizaki nel suo Libro d’Ombra – parlandone peraltro in modo meraviglioso – difendere il diritto del Buio a esistere significa anche, implicitamente, tutelare il ruolo della Luce.

Space economy e ambiente: un’opportunità purché lo spazio non si trasformi in un nuovo Far West

economia dello spazio cos'è

Oggi, sugli schermi di Teletruria (dove sono ospite come direttore responsabile di BuoneNotizie.it e come docente dell’Associazione Italiana Giornalismo Costruttivo) ho parlato di space economy. O meglio: di new space economy.

La corsa allo spazio è iniziata molto tempo fa e già allora, dall’era del lancio dello Sputnik, lo sviluppo delle operazioni spaziali implicava anche la nascita di una nuova economia. Solo oggi però, sulla scia dello sviluppo delle nuove tecnologie e dell’ingresso dei privati, l’economia dello spazio acquisisce un peso che, in prospettiva, potrebbe diventare trainante. Con aspetti potenzialmente positivi per quanto riguarda il cosiddetto segmento downstream della space economy. I dati che ci arrivano dallo spazio vanno infatti a nutrire molti rami: dal monitoraggio dei problemi ambientali (deforestazione, desertificazione) alla prevenzione e alla gestione delle emergenze per non parlare delle implicazioni sul piano dell’agricoltura di precisione, dei trasporti ecc.

C’è però anche un rovescio della medaglia. Per quanto – sul piano quantitativo – i rifiuti umani nello spazio rappresentino un nonnulla, in termini umani la presenza di un problema rifiuti spaziali (moltissimi intorno alla Luna e alla Terra) porta alla luce qualcosa di cui dobbiamo prendere atto. Se lo spazio si tarsformerà nell’ennesimo Far West in cui trasferiremo le logiche coloniali che hanno generato mostri qui sulla Terra, se lo trasformeremo in una falsa pagina bianca in cui copincollare tutto ciò che non ha funzionato quaggiù, non sarà “un grande passo per l’umanità”: sarà solo l’ennesima débacle.

Violenza di genere, femminicidi e giornalismo costruttivo

Oggi, su Teletruria (dove sono ospite di Gloria Peruzzi ogni settimana) ho parlato di una bella inchiesta sulla violenza di genere che recentemente abbiamo pubblicato su BuoneNotizie.it: la testata di cui sono direttore responsabile ormai da due anni e mezzo.

Come presupposto, siamo partiti da quella che per noi è la domanda fondamentale: che tipo di informazione serve alle vittime? Parlare di femminicidi è giusto, ma parlare “solo” di femminicidi – indulgendo nei particolari più morbosi – rischia solo di amplificare l’onnipotenza del carnefice nella percezione delle vittime e di di diventare un deterrente per le donne che vorrebbero denunciare. Cosa serve, quindi, per favorire l’emersione del problema? Abbiamo risposto con gli strumenti del giornalismo, mettendo l’accento su cosa sta cambiando e su cosa serve.
Lo abbiamo fatto partendo dai numeri e guardandoli in modo diverso perché il numero, a volte, non dice una cosa sola ma apre tanti spaccati. L’incremento delle denunce, per esempio, parla della gravità del fenomeno ma allo stesso tempo ci dice che (a differenza del passato, quando tutto passava sotto silenzio) oggi, finalmente, molte situazioni vengono alla luce e questo succede perché esiste una rete sempre più forte di CAV, rifugi e professionisti specializzati.
Abbiamo poi parlato di esempi virtuosi (e scalabili, cioè replicabili anche da noi) come quello della Spagna, che ha iniziato un percorso normativo e di professionalizzazione molto prima di noi. Last but not least, abbiamo poi parlato di una cosa (positiva) di cui non si parla mai: l’aumento delle denunce da parte di donne, sta aiutando anche gli uomini a denunciare. Perché sì, esiste (in modo diverso: in termini più di violenza economica e psicologica) anche una violenza sugli uomini, perpetratata sia da donne sia da altri uomini. Una violenza che fa ancora fatica a venire alla luce perché – sempre a causa degli stereotipi – un uomo che denuncia violenza (a maggior ragione se da una donna) purtroppo fa ancora ridere e viene additato come “debole” o “femminuccia”. Il futuro della lotta contro la violenza di genere, credo che starà anche in questo: nella maturazione di un approccio più inclusivo.

 

Fame nel mondo e sostenibilità: come sfamare 8 miliardi di persone?

Oggi, sugli schermi di Teletruria, ho parlato di fame nel mondo e di spreco di cibo. L’impatto del cibo che viene prodotto e buttato via è enorme, con conseguenze facilmente immaginabili sia in termini sociali (avremmo cibo per sfamare 12 – anziché 8 – miliardi di persone ma la fame continua a mietere vittime) sia dal punto di vista ambientale (cibo buttato via = emissioni).
La soluzione? Ridurre gli sprechi sia sul piano individuale (il 61% del cibo viene buttato via in ambito domestico) sia a livello macro.
Detto questo, però, ammettiamolo: lo spreco di cibo dipende anche da cause politiche e sociali che hanno a che vedere con la distribuzione assolutamente impari delle risorse e della ricchezza. Ed è anche da qui che bisognerà partire per ripensare al problema della fame nel mondo ridistribuendo colpe e responsabilità in modo più equo e guardando a soluzioni di reale impatto.
La riduzione degli sprechi funzionerà solo se portata avanti in sinergia con politiche efficaci su altri fronti. Parlarne con gli strumenti del giornalismo costruttivo significa guardare alle possibili soluzioni senza però indorare la pillola e analizzando in modo rigoroso anche gli aspetti più critici del problema.

Borghi italiani, spopolamento e city quitters. Lo smart working aprirà nuove soluzioni?

Su Teletruria, questa settimana ho parlato di un tema che mi sta molto a cuore: i borghi italiani, il problema del loro spopolamento e le soluzioni sul piatto della bilancia. Un tema che – come sempre – ho affrontato con gli strumenti del giornalismo costruttivo.
Diciamocelo: la pandemia ha fatto capire a molti di noi, che le città possono diventare delle gabbie. “Conigliere” le ha definite una persona che ho incontrato tempo fa in montagna e non posso che dargli ragione.
Sulla scia di questa “claustrofobia indotta” ma anche – soprattutto – seguendo le opportunità fornite dal lavoro da remoto, molti hanno lasciato le città per trasferirsi nei borghi. Di city quitters, si parlava già prima ma il fenomeno si è amplificato e ha messo sul piatto della bilancia delle opportunità inedite che alcuni borghi hanno saputo sfruttare.
Se il legame tra lavoro da remoto e le politiche di ripopolamento dei borghi creerà solo un flusso transitorio, in grado di realizzare quella destagionalizzazione dei flussi turistici che si è sempre cercato di innescare, questa sarà certamente una buona notizia ma non rappresenterà la soluzione del problema. Le soluzioni iniziano a nascere sul serio solo quando alcuni city quitters non “passano” dai borghi, ma decidono di fermarsi e di mettere radici. E’su questo – proprio lì, sul confine dell’ibridazione – e non nella dicotomia romantica città/natura – che bisogna puntare perché i borghi italiani non muoiano.

Tra realtà e percezione: quali sono le migliori pratiche per ridurre le emissioni di CO2

Perils of Perception ridurre emissioni CO2
Ridurre le emissioni di CO2: ci proviamo in tanti – sul piano individuale – ma non sempre nel modo giusto. C’è un divario, infatti, tra realtà e percezione: tra pratiche green di cui sovrastimiamo l’importanza e pratiche di cui sottostimiamo l’impatto ma che – messe sul piatto della bilancia – sono più incisive di altre.
Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, si dice. In questo senso, tra l’ambientalismo di facciata e l’attenzione all’ambiente vera e propria (personalmente odio gli “ismi”) c’è di mezzo la Conoscenza di ciò che serve di più e ciò che serve di meno. E anche la coscienza del fatto che le pratiche con una reale incidenza non possono prescindere dalla convergenza tra cittadini e politica.
Questa mattina, sugli schermi di Teletruria, ho parlato di “Perils of perception”: un’indagine che IPSOS conduce ogni anno per studiare, appunto, il divario tra realtà e percezione. L’ultimo sondaggio verteva proprio sul tema delle emissioni di CO2 e ha dato risultati molto interessanti.
A latere, visto che si tratta di punti nodali che emergono dall’indagine IPSOS, ho parlato anche della situazione demografica italiana, dell’eccessivo numero di auto pro-capite presenti nel nostro Paese e di cosa si potrebbe fare in merito. Un’analisi in cui il punto di partenza sono sempre gli strumenti di indagine forniti dal giornalismo costruttivo.

 

Le comunità energetiche sono una risposta alla crisi?

comunità energetiche come risposta al caro bollette

Le comunità energetiche non sono nate ieri: a ben vedere, esistono da un bel po’ma – e l’aspetto interessante è proprio questo – negli ultimi mesi hanno cambiato valenza. Abbiamo iniziato, cioè, a percepirle in modo diverso. Non più come un fenomeno di nicchia, non più come la virtuosa (ma circoscritta) iniziativa di isolati gruppuscoli di cittadini, ma che come una potenziale risposta alla crisi energetica e al caro bollette.

Le conseguenze della pandemia e l’impatto della guerra in Ucraina sul prezzo dell’energia hanno creato un’esigenza diffusa. Di “povertà energetica” si parlava di già ma oggi l’aspetto più preoccupante è l’allargamento a macchia d’olio dell’incidenza di situazioni di “vulnerabilità energetica”. E’all’interno di questo quadro che le comunità energetiche possono rappresentare una risposta efficace.

Ne parlo qui, durante la trasmissione di Gloria Peruzzi sugli schermi di Teletruria dove Silvio Malvolti ed io siamo ospiti per BuoneNotizie.it e per l’Associazione Italiana Giornalismo Costruttivo.

Giornalismo costruttivo e catastrofi naturali: come parlarne in modo utile?

alluvioni catastrofi e giornalismo: come parlarne

Davanti all’alluvione che ha colpito le Marche (e a tanti eventi simili che rientrano nel novero delle catastrofi naturali) viene da chiedersi: è possibile comunicare questo genere di eventi in modo diverso, cioè utile a chi ascolta? Cosa può fare il giornalismo per cambiare chiavi di lettura aiutando i territori a dotarsi delle giuste misure di contenimento in modo tempestivo e – d’altra parte – aiutando le persone, cioè i fruitori delle notizie, a reagire in modo lucido e tempestivo?

Quando parliamo di alluvioni, esondazioni ed eventi “estremi”, in realtà non parliamo di meri fatti di cronaca ma delle conseguenze tangibili dei cambiamenti climatici in atto: lo dimostra l’intensificazione della frequenza e dell’intensità di questo genere di eventi. Il legame con i cambiamenti climatici (anzi: con la “crisi climatica” come ha deciso giustamente di chiamarla The Guardian) deve essere sempre sottolineato. E’doveroso, però, farlo in modo utile. Per esempio, portando anche alla luce gli esempi dei Paesi che stanno mettendo in campo misure di adattamento efficaci (e in parte, scalabili). Paradossalmente, gli esempi fioriscono soprattutto in quelli che definiamo ancora in modo indifferenziato Paesi del Terzo Mondo.

Ne parlo in questo video, sugli schermi di Teletruria, con Gloria Peruzzi e con Andrea Gennai, Direttore del Parco delle Foreste Casentinesi. Chapeau per Gennai, che dice cose davvero interessanti.

Giornalismo costruttivo e salute: come parlare di Alzheimer e demenze

alzheimer e demenze parlarne con il giornalismo costruttivo

Anche quest’anno, Silvio Malvolti ed io siamo ospiti di Gloria Peruzzi su Teletruria dove affrontiamo diverse tematiche di attualità con gli strumenti del giornalismo costruttivo.

In questo video, durante la Giornata Mondiale dell’Alzheimer, parlo proprio di Alzheimer e demenze: di quali passi avanti sono stati fatti nelle cure ma soprattutto di come – in qualità di giornalisti – dovremmo cambiare chiavi di lettura e modalità di approccio per affrontare in modo utile queste tematiche. Temi, peraltro, che con il progressivo invecchiamento della popolazione diventeranno sempre più urgenti.

C’è una narrazione della malattia che è tossica e che risponde ai dettami del click baiting più che all’esigenza di informare in modo utile i lettori. Cosa possiamo fare per dare una chiave di volta al panorama informativo attuale?

Giornalismo costruttivo, urban mining ed economia circolare dei rifiuti

economia circolare dei rifiuti e giornalismo costruttivo

Come ospite per BuoneNotizie.it alla Rassegna Stampa di Teletruria condotta da Gloria Peruzzi, oggi ho parlato di un tema che ultimamente mi sta interessando parecchio: urban mining ed economia circolare dei rifiuti.

Nell’ambito del riciclo dei rifiuti, infatti, sta iniziando a emergere in modo massiccio la tendenza virtuosa ad allargare il campo del riciclo nella direzione di una vera e propria economia circolare del rifiuto. Questo, in Paesi come l’Africa (ma non solo) sta iniziando a tradursi anche nell’incremento di nuove opportunità lavorative oltre che in uno strumento di riduzione delle emissioni da anidride carbonica.

Ne parlo qui, utilizzando gli strumenti di analisi del giornalismo costruttivo, la corrente che seguo e di cui sono docente per l’Associazione Italiana Giornalismo Costruttivo.