Guerre dell’acqua: cosa sono e cosa è necessario fare per evitare che ci travolgano

Del fatto che l’acqua sia una risorsa preziosa ce ne stiamo rendendo conto tutti a suon di episodi siccitosi. Sappiamo anche che la nostra rete idrica è un colabrodo e che in certe province (Frosinone) le perdite raggiungono l’80%. Detto ciò, siamo ancora – almeno per ora – all’interno di una bolla fortunata in cui il “grosso” dei conflitti legati all’acqua si sente relativamente poco.
Parlo volutamente di conflitti perché le “guerre dell’acqua” a volte sono guerre vere e proprie e a volte, come nel caso del water grabbing, sono conflitti. Molte le cause, tra cui gioca senz’altro un ruolo di primo piano lo ha il combo tra:
l’aumento della domanda (incremento della popolazione mondiale, democratizzazione del consumo nelle aree più ricche, con conseguente aumento degli utenti effettivi e nuove abitudini igieniche. Risultato: +1% della domanda di acqua ogni anno, da quarant’anni a questa parte, ma da qui al 2030 l’incremento potrebbe essere anche superiore)
la riduzione dell’offerta (ovvero incremento delle temperature, degli episodi siccitosi e incapacità, almeno per il momento, di contenere e riutilizzare su grande scala, le risorse generate dalle cosiddette bombe d’acqua).
Questa è la situazione. Le guerre dell’acqua sono sempre di più (202 negli ultimi due anni) e gli episodi di water grabbing (che spesso vanno a braccetto con clamorosi esempi di greenwashing) pullulano. Detto ciò: what now? Quali sono le soluzioni? Come si risolvono i conflitti? In buona parte giocando d’anticipo senza aspettare che la frittata sia fatta.
Ne ho parlato oggi sugli schermi di Teletruria.

Space economy e ambiente: un’opportunità purché lo spazio non si trasformi in un nuovo Far West

economia dello spazio cos'è

Oggi, sugli schermi di Teletruria (dove sono ospite come direttore responsabile di BuoneNotizie.it e come docente dell’Associazione Italiana Giornalismo Costruttivo) ho parlato di space economy. O meglio: di new space economy.

La corsa allo spazio è iniziata molto tempo fa e già allora, dall’era del lancio dello Sputnik, lo sviluppo delle operazioni spaziali implicava anche la nascita di una nuova economia. Solo oggi però, sulla scia dello sviluppo delle nuove tecnologie e dell’ingresso dei privati, l’economia dello spazio acquisisce un peso che, in prospettiva, potrebbe diventare trainante. Con aspetti potenzialmente positivi per quanto riguarda il cosiddetto segmento downstream della space economy. I dati che ci arrivano dallo spazio vanno infatti a nutrire molti rami: dal monitoraggio dei problemi ambientali (deforestazione, desertificazione) alla prevenzione e alla gestione delle emergenze per non parlare delle implicazioni sul piano dell’agricoltura di precisione, dei trasporti ecc.

C’è però anche un rovescio della medaglia. Per quanto – sul piano quantitativo – i rifiuti umani nello spazio rappresentino un nonnulla, in termini umani la presenza di un problema rifiuti spaziali (moltissimi intorno alla Luna e alla Terra) porta alla luce qualcosa di cui dobbiamo prendere atto. Se lo spazio si tarsformerà nell’ennesimo Far West in cui trasferiremo le logiche coloniali che hanno generato mostri qui sulla Terra, se lo trasformeremo in una falsa pagina bianca in cui copincollare tutto ciò che non ha funzionato quaggiù, non sarà “un grande passo per l’umanità”: sarà solo l’ennesima débacle.

Tra realtà e percezione: quali sono le migliori pratiche per ridurre le emissioni di CO2

Perils of Perception ridurre emissioni CO2
Ridurre le emissioni di CO2: ci proviamo in tanti – sul piano individuale – ma non sempre nel modo giusto. C’è un divario, infatti, tra realtà e percezione: tra pratiche green di cui sovrastimiamo l’importanza e pratiche di cui sottostimiamo l’impatto ma che – messe sul piatto della bilancia – sono più incisive di altre.
Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, si dice. In questo senso, tra l’ambientalismo di facciata e l’attenzione all’ambiente vera e propria (personalmente odio gli “ismi”) c’è di mezzo la Conoscenza di ciò che serve di più e ciò che serve di meno. E anche la coscienza del fatto che le pratiche con una reale incidenza non possono prescindere dalla convergenza tra cittadini e politica.
Questa mattina, sugli schermi di Teletruria, ho parlato di “Perils of perception”: un’indagine che IPSOS conduce ogni anno per studiare, appunto, il divario tra realtà e percezione. L’ultimo sondaggio verteva proprio sul tema delle emissioni di CO2 e ha dato risultati molto interessanti.
A latere, visto che si tratta di punti nodali che emergono dall’indagine IPSOS, ho parlato anche della situazione demografica italiana, dell’eccessivo numero di auto pro-capite presenti nel nostro Paese e di cosa si potrebbe fare in merito. Un’analisi in cui il punto di partenza sono sempre gli strumenti di indagine forniti dal giornalismo costruttivo.

 

Le comunità energetiche sono una risposta alla crisi?

comunità energetiche come risposta al caro bollette

Le comunità energetiche non sono nate ieri: a ben vedere, esistono da un bel po’ma – e l’aspetto interessante è proprio questo – negli ultimi mesi hanno cambiato valenza. Abbiamo iniziato, cioè, a percepirle in modo diverso. Non più come un fenomeno di nicchia, non più come la virtuosa (ma circoscritta) iniziativa di isolati gruppuscoli di cittadini, ma che come una potenziale risposta alla crisi energetica e al caro bollette.

Le conseguenze della pandemia e l’impatto della guerra in Ucraina sul prezzo dell’energia hanno creato un’esigenza diffusa. Di “povertà energetica” si parlava di già ma oggi l’aspetto più preoccupante è l’allargamento a macchia d’olio dell’incidenza di situazioni di “vulnerabilità energetica”. E’all’interno di questo quadro che le comunità energetiche possono rappresentare una risposta efficace.

Ne parlo qui, durante la trasmissione di Gloria Peruzzi sugli schermi di Teletruria dove Silvio Malvolti ed io siamo ospiti per BuoneNotizie.it e per l’Associazione Italiana Giornalismo Costruttivo.

Aree protette e riforestazione: parlarne con gli strumenti del giornalismo costruttivo

aree protette e riforestazione

Quest’anno due grandi parchi nazionali italiani compiono nientemeno che cent’anni. Quante sono le aree protette in Italia? Come si sono strutturate negli anni e qual è il loro trend di crescita? Fare il punto della situazione è importante: soprattutto oggi, nell’ambito della crisi climatica.

In quanto polmoni verdi, le aree protette rappresentano importanti risorse che è fondamentale saper gestire. Non basta incrementare la loro superficie: più alberi non significa automaticamente meno anidride carbonica se i piani di riforestazione non sono seguiti da piani di gestione.

Ecco allora che parlare di riforestazione e aree protette significa prendere atto anche di quelle che sono le strategie necessarie per gestire il nostro patrimonio forestale. Ne parlo insieme a Gloria Peruzzi durante la Rassegna Stampa di Teletruria, di cui sono ospite come direttore responsabile di BuoneNotizie.it e come docente dell’Associazione Italiana Giornalismo Costruttivo.