La pizza gourmet? A volte parla anche di immigrazione e lavoro

Non so altrove, ma a Milano – ultimamente – è tutto un pullulare di pizzerie gourmet. Lo dico senza ironia perché a me, la pizza gourmet piace. “Marghe”, “Capperi che pizza”, “Pizza biscottata”, Gino Sorbillo: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Il fenomeno è interessante, ma lo diventa ancora di più se lo si prende come possibile chiave di lettura  dei cambiamenti che stanno investendo la nostra società. A partire dall’impatto dell’immigrazione sul mondo del lavoro.

Partiamo da un presupposto: tra immigrazione reale e immigrazione percepita c’è un gap consistente, come mostrano alcuni studi di Ipsos Mori usciti qualche anno fa anche sul Guardian. Detto ciò, è inutile negare l’ovvio: l’immigrazione esiste, è un fenomeno di massa che ha una portata globale e ha innescato cambiamenti strutturali all’interno della nostra società. Anche all’interno del mondo del lavoro. Che però questi cambiamenti siano per forza peggiorativi e si riassumano nella formula “gli immigrati ci rubano il lavoro”… bè, questa è una semplificazione che sconfina con il fakeUn po’ perché il mondo del lavoro è un universo complesso e ricco di sfumature, un po’ perché l’evoluzione di certi settori sembra suggerire esattamente il contrario.

E qui torniamo a bomba… o meglio: al mondo della pizza gourmet. E’ un mio cliente, che mi ci ha fatto fare mente locale: un professionista che lavora nell’ambito delle farine biologiche e degli impasti per pizza. L’ho conosciuto in occasione di un’intervista che verteva su altro, ma che di fatto mi ha permesso di mettere a fuoco alcuni aspetti su cui non avevo ancora fatto mente locale. Il mondo della pizza e l’affermazione della pizza gourmet rappresentano infatti un ambito in cui l’immigrazione ha innescato un cambiamento profondo e tutt’altro che negativo. 

Cos’è successo, è facile da riassumere. Sotto casa mia c’è una pizzeria “Da Mimmo” che continua a chiamarsi “Da Mimmo” ma ha cambiato i connotati: i proprietari sono egiziani. Quando mi sono trasferita qui, dieci anni fa, la loro pizza era una ciofeca: per andare giù andava giù… ma poi ti si riproponeva. A oltranza. Oggi la pizza di “Mimmo” è migliorata: intendiamoci, non che sia un capolavoro ma non ti si ripropone più. Ed è economica. In zona Pasteur, invece, mi è capitato di mangiare più volte pizze cinesi di specchiata onestà.

Riassumendo: quando  i primi pizzaioli egiziani e cinesi hanno iniziato a venire alla ribalta, i pizzaioli nostrani – probabilmente – non ci hanno fatto neanche caso. D’altra parte la pizza, quella “vera” (manco esistesse!) la facevano loro… specialisti in pizza napoletana ma nati a Casalpusterlengo e tirati su a polenta e latte. Una cosa, però, i pizzaioli finto-napoletani non l’avevano prevista. Anzi, due: da una parte, le capacità mimetiche dei nuovi arrivati (che hanno iniziato a imparare il mestiere e a darci dentro pesantemente), dall’altra l’arrivo della Crisi, che ha trasformato la concorrenza in un gioco al ribasso. La battaglia – manco a dirla – l’hanno vinta i nuovi arrivati, capacissimi di sfornare pizze simili a quelle dei vecchi e per di più molto economiche. In breve, i tanti Mimmo e Gennaro che affollavano le strade di Milano hanno finito con l’abbassare la saracinesca.

Fine della storia? No. Ed è qui che interviene il colpo di scena, perché a un certo punto ha iniziato a emergere una nuova generazione di pizzaioli made in Italy, un po’ hipster un po’ manageriali: attenti alle farine, al lievito madre, alla materia prima. La pizza si trasformava in esperienza, in ricerca, in filiera di piccoli produttori… e nasceva la pizza gourmet. Complice, anche in questo senso, il darwinismo sociale della Crisi che ha spinto chi non voleva giocare al ribasso a puntare su una qualità che giustificasse prezzi più alti. Partita vinta? E’ un po’ difficile dirlo, anche perché ora le pizzerie gourmet iniziano a essere tante e la concorrenza si è già trasformata in una lotta al coltello.

Personalmente, guardando al futuro, non saprei dire se qualcuno dei nuovi brand – perché di brand si tratta – si affermerà in modo continuativo, se si tratti di una gigantesca bolla di sapone o se prevarrà la logica delle startup… ma una cosa è certa. Il fenomeno trova la sua chiave di lettura nella prospettiva che, qualche anno fa, Michael Clemens (membro del Center for Global Development) aveva suggerito in un interessante articolo. Analogamente, Mette Foged e Giovanni Peri – in  “Immigrants’ Effect on Native Workers: New Analysis on Longitudinal Data.” – hanno mostrato come, di fronte all’impatto dei flussi migratori, i lavoratori danesi non altamente qualificati abbiano reagito specializzandosi in mansioni più complesse: lasciando, per esempio, il lavoro manuale ai nuovi arrivati. Una sorta di “scalata” lavorativa, insomma. Fondamentalmente la stessa che in certi ambiti si svilupperà per una causa molto diversa rispetto all’immigrazione: quella tendenza all’automazione dei processi produttivi che oggi si tende a chiamare Industria 4.0. 

Il fenomeno, come dicevo, è complesso e certo non si può far di tutta l’erba un fascio… il mondo del lavoro è una bacheca fatta di nicchie diverse e non è vero che tutti gli ambiti funzionino allo stesso modo. Per quanto riguarda il mondo della pizza, però, mi sembra che si giochi a carte scoperte… e il gioco mi sembra un “bel gioco”. Con buona pace di chi – davanti a una pizza gourmet – arriccia il naso con stizza e rimpiange la pizza di un Gennaro che, nella maggior parte dei casi, non si chiamava neanche così.

Martina Fragale

Bufale e tic cognitivi. Siamo tutti un po’ complottisti

Ecco qui… per la seconda e non ultima volta sono stata invitata a parlare di fake news e giornalismo insieme a Giorgio Testanera. E’ stato interessante esportare il format della nostra prima conferenza ripensandone alcuni particolari e arricchendolo ulteriormente. Il titolo è sempre lo stesso dell’anno scorso: “Vita da bufala. Dialogo tra uno scettico e una giornalista su come sopravvivere alle scie chimiche”, il luogo (Appiano Gentile, un anno fa) questa volta si è spostato di qualche chilometro, a Rovello Porro. Ciò che è cambiato e che ha contribuito a dare a questo appuntamento un taglio nuovo, è stato il pubblico.

Nuove domande, nuovi approcci: quello che ci ha accolti, è stato un pubblico attivo e reattivo che ci ha consentito di “aggiustare il tiro” in modo inedito. Io ho parlato ancora di tic cognitivi e di approccio multicausale al fenomeno delle fake news, Giorgio Testanera ha declinato il discorso in ambito scientifico, parlando del complesso rapporto fra Scienza e Verità. E il pubblico ci ha spinti in direzione di una chiave di lettura interessante, scettica e costruttiva al tempo stesso. Per chi si è perso la conferenza, ecco un breve estratto.

Ecco perché le bufale non muoiono. E come si può cercare di fare debunking in modo costruttivo.

Bufale, fake news… le si chiami come si vuole: il problema della veridicità o meno di una notizia, è qualcosa in cui siamo immersi fino al collo dalla notte dei tempi. Con l’avvento della rete, la natura del problema non è cambiata di una virgola. Gli antichi rumors non hanno fatto altro che ampliare il proprio raggio d’azione, cristallizzandosi in contenuti scritti e venendo – se mai – un po’ più alla luce del sole rispetto a prima.

Come ogni macrofenomeno che si rispetti, quello delle fake news è un mondo complesso e multifattoriale in ogni suo aspetto. Sia per quanto riguarda le origini delle bufale (perché nascono?) sia per altri motivi. Per esempio: perché, come sostengono in molti – dati alla mano – fare debunking non serve? Detta in altri termini: perché le bufale non muoiono?

Le ragioni della rete

Quando nasce una notizia in rete – vera o falsa che sia – si può star certi di una cosa: la notizia non morirà. Almeno nella maggior parte dei casi. Tanto per cominciare, una fake news  – una volta nata – raramente viene smentita. Sia (ovviamente) quando viene partorita dalla mente di un complottista, sia quando è stata diffusa in modo del tutto involontario. Da qualcuno, cioè, che si è semplicemente dimenticato di verificare le sue fonti. Anche in caso contrario, tuttavia, le bufale possono continuare a galoppare per anni attraverso le verdi praterie della rete… complice il fenomeno delle condivisioni sui social. E’ paradossale, ma anche condividere il link a una notizia falsa con l’obiettivo di dichiararla tale, non farà altro che dar mano forte alla bufala, contribuendo a diffonderla ulteriormente. In questo senso il mondo della rete ha la stessa liquidità dei vecchi rumors: le voci di corridoio dotate della capacità di diffondersi a macchia d’olio attraverso la logica del telefono senza fili.

Le ragioni della mente

In “Bugie, bugie virali e giornalismo”, Craig Silverman – direttore di Buzzfeed Canada – scandaglia il mondo delle fake news in modo approfondito, mettendo anche in luce quell’articolata serie di meccanismi psicologici (i tic cognitivi) che spesso contribuiscono a rendere del tutto inefficace l’opera dei debunkerEcco qualche esempio.

Bias di conferma: quando cerchiamo informazioni su una determinata tematica, automaticamente tendiamo a privilegiare i dati che confermano le nostre opinioni, tralasciando quelli che le smentiscono.

Effetto ritorno di fiamma: quando le nostre convinzioni vengono messe in discussione, tendiamo a riaffermarle con maggior forza.

Ragionamento regolato: oltre a lasciarci facilmente persuadere dalle
informazioni che si adattano alle nostre convinzioni, tendiamo anche a giudicare duramente (o addirittura a respingere)  prove e dettagli in contrasto con il nostro punto di vista. La nostra capacità di ragionare, quindi, è influenzata (regolata) dalle nostre convinzioni preesistenti.

Assimilazione partigiana: quando intercettiamo una nuova informazione, tendiamo ad assimilarla in modo che si adatti alle nostre vecchie convinzioni

Polarizzazione di gruppo: quando condividiamo le nostre opinioni con persone che la pensano come noi, tendiamo automaticamente a radicalizzare le nostre posizioni e a sostenerle in modo più marcato.

La smentita trasparente: a differenza di un computer, la nostra mente non ha il tasto reset. Ciò significa che tendiamo a ragionare in modo cumulativo, sommando le nuove convinzioni a quelle vecchie (senza, cioè, cancellarle). E’ questo, in buona parte, che rende spesso le smentite inefficaci e che depotenzia anche una seria attività di debunking.

Spiegando le diverse voci, ho usato volutamente la prima persona plurale per sottolineare un punto che mi sembra di fondamentale importanza: i tic cognitivi non sono esclusivo appannaggio dei complottisti, ma coinvolgono ognuno di noi. Nessuno è immune.

Impostare il problema in questo modo aiuta a uscire dalla contrapposizione frontale tra Noi (quelli sani) e gli Altri (gli odiati complottisti). Come recita un vecchio adagio, “da vicino nessuno è normale” e la normalità – forse – non esiste affatto. Credo che questo possa essere un buon punto di partenza per approcciare il problema delle fake news in modo diverso. Fare debunking, forse serve… a patto di cambiare prospettiva e raddrizzare il tiro del proprio intervento.

 

Bufale: se le conosci non le eviti. Ma impari a sopravvivere

Un anno fa, mese più mese meno, andavo ad Appiano Gentile a parlare di bufale e informazione con Giorgio Testanera. Per l’evento, avevamo coniato un titolo ironico: “Vita da bufala: viaggio nell’impossibile. Dialogo tra uno scettico e una giornalista su come sopravvivere alle scie chimiche”. Al di là del titolo, tuttavia, l’obiettivo della serata era serissimo: accendere la sacra fiamma del dubbio nei lettori e fornire inoltre degli strumenti spendibili perché ognuno potesse fare un po’ di sano debunking per conto proprio.

Qualche giorno fa, mi è arrivata da Rovello Porro la richiesta di riproporre la conferenza il 28 ottobre presso l’Associazione Artistico Culturale HELIANTO… motivo per cui, mi ritrovo a spulciare di nuovo gli appunti dell’anno scorso. Ripercorrendo i tratti distintivi di un fenomeno mediatico – la bufala, appunto – all’ordine del giorno e sempre attuale.

Duole infatti deludere i nostalgici dell’Epoca d’Oro del giornalismo, ma da che mondo è mondo la bufala è sempre esistita. L’unico tratto distintivo rispetto al passato, è che sono cambiate due cose: da una parte la rivoluzione di internet ha moltiplicato i canali di diffusione delle notizie, facendo da amplificatore tanto alle true quanto alle fake news. Dall’altra, la stessa rete offre ai suoi fruitori strumenti utili per fare debunking, cioè per distinguere (almeno a livello base) ciò che è falso da ciò che potrebbe non esserlo.

Detto ciò, quanto serve – realmente – fare debunking? Secondo voci autorevoli, tra cui Walter Quattrociocchi (coordinatore del Css Lab alla IMT Scuola di Alti Studi di Lucca), il debunking servirebbe a poco o a nulla. Le bufale, in parole povere, nascono, crescono ma non muoiono: complici i complottisti (che contro ogni evidenza vogliono continuare a credere nei loro fantasmi interiori) e complice – aggiungo io – anche il fatto che una fake news smentita, continua comunque a propagarsi a macchia d’olio  per tutta una serie di meccanismi interni ed esterni alla rete. Un fenomeno complesso in grado di far cadere le braccia anche al più agguerrito debunker. Io l’ho chiamato zombizzazione della notizia: nel senso che le fake news, alla faccia del debunking, vivono e vegetano anche oltre la morte. Come gli zombie, appunto.

Alla luce di tutto questo, che senso ha fare debunking? E che senso ha fare una conferenza sulle bufale? Ecco, la sfida sta proprio qui. Utilizzare il giornalismo costruttivo come chiave di lettura per reimpostare il tema e proporlo in una prospettiva diversa. Partire dal problema per cambiare la domanda e cercare una soluzione.

Il punto, oggi, non è fare debunking tout court, ma trovare una via per farlo in modo efficace… il che significa analizzare il problema partendo dalle fondamenta. La sfida, cioè, implica risalire alle radici del “fenomeno bufala” per rileggere le fake news come un mondo complesso in cui interagiscono diversi fattori. La psicologia del complottista – certo- ma non solo questo: anche l’influsso di un modello di business – quello basato sul click baiting – che purtroppo influenza ancora profondamente il giornalismo. E, last but not list, anche alcuni meccanismi di base, scandagliati dalla psicologia cognitiva, da cui nessuno di noi è esente (bias di conferma e simili).

Ecco, credo che in fondo l’approccio migliore al problema sia proprio questo: riconoscere che la bufala rappresenta un fenomeno complesso e multifattoriale da cui nessuno di noi è del tutto esente.

Martina Fragale