Quando il caffè diventa un ufficio. Confessioni di una nomade urbana.

Chi mi segue sui social sa che sono un animale da caffè. Il caffè inteso come luogo, giusto per capirci. Sia che si tratti di bar, pasticcerie o bistrot, i caffè fanno parte della mia quotidianità almeno per un paio di buoni motivi. In primis perché – cascasse il mondo – mai e poi mai rinuncerei al mio cornetto integrale al miele e in secondo luogo perché nei caffè, io ci lavoro. Così come ci lavorano tanti altri freelance.

I motivi sono diversi. In parte pratici. Per chi non ha un ufficio, il caffè rappresenta infatti un surrogato a buon mercato dei coworking e al tempo stesso una buona alternativa all’opzione più terra terra: quella di lavorare direttamente da casa. All’estero, peraltro, dove non solo ci sono più freelance ma è anche più sviluppato lo smart working, i caffè pullulano di professionisti di tutti i tipi. Qualche mese fa mi sono fatta il giro dei caffè di Londra con un amico che lavora spesso per conto proprio. E che di professione fa… il radiologo!  Il colosso Starbucks, di fatto, cavalca in buona parte l’onda di questa tendenza (e fa bene).

In Italia, le cose sono un po’ diverse e chi lavora nei caffè ha tendenzialmente un profilo professionale più circoscritto. E spesso un tantino bohémien, almeno agli occhi degli altri. Sono abbastanza convinta che in questo influisca anche una forte differenza di mentalità. In Italia, per esempio, si tende a sopravvalutare l’importanza dell’ufficio: inteso come status symbol professionale più che come luogo in sé. “Ho visto cose che voi umani… “soprattutto, ho visto liberi professionisti praticamente implumi sperperare nell’affitto di un ufficio perfettamente superfluo, soldi che avrebbero potuto investire in sviluppo concreto della propria attività. Ma l’ufficio, si sa, fa rappresentanza (anche quando l’unico a entrarci è l’affittuario). Diverso è il discorso per chi lavora in campo artistico o culturale, anche se – a ben vedere – le motivazioni sono specularmente simili e spesso anche il creativo che lavora da un caffè, lo fa per status symbol.  Cioè in quanto aspirante bohémien.

Per quanto mi riguarda, invece, il discorso è diverso. Scrivo nei caffè per motivi che non hanno nulla a che vedere con lo status symbol e che vanno addirittura oltre l’amore per il cornetto al miele. Amo i caffè perché ognuno di loro – anche il più squallido – è un porto di mare che pullula di vita. E perché con tutto il loro strabenedetto caos , per me rimangono sempre migliori di qualsiasi altra opzione. Biblioteche in primis. Tra gli esseri umani c’è sempre e comunque più vita che tra i libri. Lo dico io, che i libri li scrivo e li leggo… rimanendo però convinta che nulla alimenti la scrittura quanto il legame diretto con la realtà. L’hic et nunc che rappresenta il tessuto connettivo in cui – volenti o nolenti – tutti ci muoviamo.

In questa prospettiva, i caffè sono un inesauribile collettore di storie. Un davanzale sulla strada e sulla sua straordinaria vitalità, ma anche un osservatorio privilegiato su quella che Bauman ha descritto come “società liquida”. E che tutto sommato, tanto male non è. Ecco perché ho pensato di dedicare una parte di questo spazio ai luoghi della scrittura, cioè ai caffè – milanesi e non – in cui quotidianamente mi accampo a scrivere, ma anche agli aeroporti, alle stazioni e ai tanti occasionali ambienti di passaggio che mi è capitato di trasformare occasionalmente nel mio ufficio. Sono quelli che Marc Augé ha definito non luoghi e che personalmente fatico a considerare tali. I non luoghi non esistono. Sono semplicemente dei luoghi che aspettano solo di essere esperiti e colonizzati attraverso la fruizione diretta.