Ecco perché le bufale non muoiono. E come si può cercare di fare debunking in modo costruttivo.

Bufale, fake news… le si chiami come si vuole: il problema della veridicità o meno di una notizia, è qualcosa in cui siamo immersi fino al collo dalla notte dei tempi. Con l’avvento della rete, la natura del problema non è cambiata di una virgola. Gli antichi rumors non hanno fatto altro che ampliare il proprio raggio d’azione, cristallizzandosi in contenuti scritti e venendo – se mai – un po’ più alla luce del sole rispetto a prima.

Come ogni macrofenomeno che si rispetti, quello delle fake news è un mondo complesso e multifattoriale in ogni suo aspetto. Sia per quanto riguarda le origini delle bufale (perché nascono?) sia per altri motivi. Per esempio: perché, come sostengono in molti – dati alla mano – fare debunking non serve? Detta in altri termini: perché le bufale non muoiono?

Le ragioni della rete

Quando nasce una notizia in rete – vera o falsa che sia – si può star certi di una cosa: la notizia non morirà. Almeno nella maggior parte dei casi. Tanto per cominciare, una fake news  – una volta nata – raramente viene smentita. Sia (ovviamente) quando viene partorita dalla mente di un complottista, sia quando è stata diffusa in modo del tutto involontario. Da qualcuno, cioè, che si è semplicemente dimenticato di verificare le sue fonti. Anche in caso contrario, tuttavia, le bufale possono continuare a galoppare per anni attraverso le verdi praterie della rete… complice il fenomeno delle condivisioni sui social. E’ paradossale, ma anche condividere il link a una notizia falsa con l’obiettivo di dichiararla tale, non farà altro che dar mano forte alla bufala, contribuendo a diffonderla ulteriormente. In questo senso il mondo della rete ha la stessa liquidità dei vecchi rumors: le voci di corridoio dotate della capacità di diffondersi a macchia d’olio attraverso la logica del telefono senza fili.

Le ragioni della mente

In “Bugie, bugie virali e giornalismo”, Craig Silverman – direttore di Buzzfeed Canada – scandaglia il mondo delle fake news in modo approfondito, mettendo anche in luce quell’articolata serie di meccanismi psicologici (i tic cognitivi) che spesso contribuiscono a rendere del tutto inefficace l’opera dei debunkerEcco qualche esempio.

Bias di conferma: quando cerchiamo informazioni su una determinata tematica, automaticamente tendiamo a privilegiare i dati che confermano le nostre opinioni, tralasciando quelli che le smentiscono.

Effetto ritorno di fiamma: quando le nostre convinzioni vengono messe in discussione, tendiamo a riaffermarle con maggior forza.

Ragionamento regolato: oltre a lasciarci facilmente persuadere dalle
informazioni che si adattano alle nostre convinzioni, tendiamo anche a giudicare duramente (o addirittura a respingere)  prove e dettagli in contrasto con il nostro punto di vista. La nostra capacità di ragionare, quindi, è influenzata (regolata) dalle nostre convinzioni preesistenti.

Assimilazione partigiana: quando intercettiamo una nuova informazione, tendiamo ad assimilarla in modo che si adatti alle nostre vecchie convinzioni

Polarizzazione di gruppo: quando condividiamo le nostre opinioni con persone che la pensano come noi, tendiamo automaticamente a radicalizzare le nostre posizioni e a sostenerle in modo più marcato.

La smentita trasparente: a differenza di un computer, la nostra mente non ha il tasto reset. Ciò significa che tendiamo a ragionare in modo cumulativo, sommando le nuove convinzioni a quelle vecchie (senza, cioè, cancellarle). E’ questo, in buona parte, che rende spesso le smentite inefficaci e che depotenzia anche una seria attività di debunking.

Spiegando le diverse voci, ho usato volutamente la prima persona plurale per sottolineare un punto che mi sembra di fondamentale importanza: i tic cognitivi non sono esclusivo appannaggio dei complottisti, ma coinvolgono ognuno di noi. Nessuno è immune.

Impostare il problema in questo modo aiuta a uscire dalla contrapposizione frontale tra Noi (quelli sani) e gli Altri (gli odiati complottisti). Come recita un vecchio adagio, “da vicino nessuno è normale” e la normalità – forse – non esiste affatto. Credo che questo possa essere un buon punto di partenza per approcciare il problema delle fake news in modo diverso. Fare debunking, forse serve… a patto di cambiare prospettiva e raddrizzare il tiro del proprio intervento.

 

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