Ecco perché le bufale non muoiono. E come si può cercare di fare debunking in modo costruttivo.

Bufale, fake news… le si chiami come si vuole: il problema della veridicità o meno di una notizia, è qualcosa in cui siamo immersi fino al collo dalla notte dei tempi. Con l’avvento della rete, la natura del problema non è cambiata di una virgola. Gli antichi rumors non hanno fatto altro che ampliare il proprio raggio d’azione, cristallizzandosi in contenuti scritti e venendo – se mai – un po’ più alla luce del sole rispetto a prima.

Come ogni macrofenomeno che si rispetti, quello delle fake news è un mondo complesso e multifattoriale in ogni suo aspetto. Sia per quanto riguarda le origini delle bufale (perché nascono?) sia per altri motivi. Per esempio: perché, come sostengono in molti – dati alla mano – fare debunking non serve? Detta in altri termini: perché le bufale non muoiono?

Le ragioni della rete

Quando nasce una notizia in rete – vera o falsa che sia – si può star certi di una cosa: la notizia non morirà. Almeno nella maggior parte dei casi. Tanto per cominciare, una fake news  – una volta nata – raramente viene smentita. Sia (ovviamente) quando viene partorita dalla mente di un complottista, sia quando è stata diffusa in modo del tutto involontario. Da qualcuno, cioè, che si è semplicemente dimenticato di verificare le sue fonti. Anche in caso contrario, tuttavia, le bufale possono continuare a galoppare per anni attraverso le verdi praterie della rete… complice il fenomeno delle condivisioni sui social. E’ paradossale, ma anche condividere il link a una notizia falsa con l’obiettivo di dichiararla tale, non farà altro che dar mano forte alla bufala, contribuendo a diffonderla ulteriormente. In questo senso il mondo della rete ha la stessa liquidità dei vecchi rumors: le voci di corridoio dotate della capacità di diffondersi a macchia d’olio attraverso la logica del telefono senza fili.

Le ragioni della mente

In “Bugie, bugie virali e giornalismo”, Craig Silverman – direttore di Buzzfeed Canada – scandaglia il mondo delle fake news in modo approfondito, mettendo anche in luce quell’articolata serie di meccanismi psicologici (i tic cognitivi) che spesso contribuiscono a rendere del tutto inefficace l’opera dei debunkerEcco qualche esempio.

Bias di conferma: quando cerchiamo informazioni su una determinata tematica, automaticamente tendiamo a privilegiare i dati che confermano le nostre opinioni, tralasciando quelli che le smentiscono.

Effetto ritorno di fiamma: quando le nostre convinzioni vengono messe in discussione, tendiamo a riaffermarle con maggior forza.

Ragionamento regolato: oltre a lasciarci facilmente persuadere dalle
informazioni che si adattano alle nostre convinzioni, tendiamo anche a giudicare duramente (o addirittura a respingere)  prove e dettagli in contrasto con il nostro punto di vista. La nostra capacità di ragionare, quindi, è influenzata (regolata) dalle nostre convinzioni preesistenti.

Assimilazione partigiana: quando intercettiamo una nuova informazione, tendiamo ad assimilarla in modo che si adatti alle nostre vecchie convinzioni

Polarizzazione di gruppo: quando condividiamo le nostre opinioni con persone che la pensano come noi, tendiamo automaticamente a radicalizzare le nostre posizioni e a sostenerle in modo più marcato.

La smentita trasparente: a differenza di un computer, la nostra mente non ha il tasto reset. Ciò significa che tendiamo a ragionare in modo cumulativo, sommando le nuove convinzioni a quelle vecchie (senza, cioè, cancellarle). E’ questo, in buona parte, che rende spesso le smentite inefficaci e che depotenzia anche una seria attività di debunking.

Spiegando le diverse voci, ho usato volutamente la prima persona plurale per sottolineare un punto che mi sembra di fondamentale importanza: i tic cognitivi non sono esclusivo appannaggio dei complottisti, ma coinvolgono ognuno di noi. Nessuno è immune.

Impostare il problema in questo modo aiuta a uscire dalla contrapposizione frontale tra Noi (quelli sani) e gli Altri (gli odiati complottisti). Come recita un vecchio adagio, “da vicino nessuno è normale” e la normalità – forse – non esiste affatto. Credo che questo possa essere un buon punto di partenza per approcciare il problema delle fake news in modo diverso. Fare debunking, forse serve… a patto di cambiare prospettiva e raddrizzare il tiro del proprio intervento.

 

Bufale: se le conosci non le eviti. Ma impari a sopravvivere

Un anno fa, mese più mese meno, andavo ad Appiano Gentile a parlare di bufale e informazione con Giorgio Testanera. Per l’evento, avevamo coniato un titolo ironico: “Vita da bufala: viaggio nell’impossibile. Dialogo tra uno scettico e una giornalista su come sopravvivere alle scie chimiche”. Al di là del titolo, tuttavia, l’obiettivo della serata era serissimo: accendere la sacra fiamma del dubbio nei lettori e fornire inoltre degli strumenti spendibili perché ognuno potesse fare un po’ di sano debunking per conto proprio.

Qualche giorno fa, mi è arrivata da Rovello Porro la richiesta di riproporre la conferenza il 28 ottobre presso l’Associazione Artistico Culturale HELIANTO… motivo per cui, mi ritrovo a spulciare di nuovo gli appunti dell’anno scorso. Ripercorrendo i tratti distintivi di un fenomeno mediatico – la bufala, appunto – all’ordine del giorno e sempre attuale.

Duole infatti deludere i nostalgici dell’Epoca d’Oro del giornalismo, ma da che mondo è mondo la bufala è sempre esistita. L’unico tratto distintivo rispetto al passato, è che sono cambiate due cose: da una parte la rivoluzione di internet ha moltiplicato i canali di diffusione delle notizie, facendo da amplificatore tanto alle true quanto alle fake news. Dall’altra, la stessa rete offre ai suoi fruitori strumenti utili per fare debunking, cioè per distinguere (almeno a livello base) ciò che è falso da ciò che potrebbe non esserlo.

Detto ciò, quanto serve – realmente – fare debunking? Secondo voci autorevoli, tra cui Walter Quattrociocchi (coordinatore del Css Lab alla IMT Scuola di Alti Studi di Lucca), il debunking servirebbe a poco o a nulla. Le bufale, in parole povere, nascono, crescono ma non muoiono: complici i complottisti (che contro ogni evidenza vogliono continuare a credere nei loro fantasmi interiori) e complice – aggiungo io – anche il fatto che una fake news smentita, continua comunque a propagarsi a macchia d’olio  per tutta una serie di meccanismi interni ed esterni alla rete. Un fenomeno complesso in grado di far cadere le braccia anche al più agguerrito debunker. Io l’ho chiamato zombizzazione della notizia: nel senso che le fake news, alla faccia del debunking, vivono e vegetano anche oltre la morte. Come gli zombie, appunto.

Alla luce di tutto questo, che senso ha fare debunking? E che senso ha fare una conferenza sulle bufale? Ecco, la sfida sta proprio qui. Utilizzare il giornalismo costruttivo come chiave di lettura per reimpostare il tema e proporlo in una prospettiva diversa. Partire dal problema per cambiare la domanda e cercare una soluzione.

Il punto, oggi, non è fare debunking tout court, ma trovare una via per farlo in modo efficace… il che significa analizzare il problema partendo dalle fondamenta. La sfida, cioè, implica risalire alle radici del “fenomeno bufala” per rileggere le fake news come un mondo complesso in cui interagiscono diversi fattori. La psicologia del complottista – certo- ma non solo questo: anche l’influsso di un modello di business – quello basato sul click baiting – che purtroppo influenza ancora profondamente il giornalismo. E, last but not list, anche alcuni meccanismi di base, scandagliati dalla psicologia cognitiva, da cui nessuno di noi è esente (bias di conferma e simili).

Ecco, credo che in fondo l’approccio migliore al problema sia proprio questo: riconoscere che la bufala rappresenta un fenomeno complesso e multifattoriale da cui nessuno di noi è del tutto esente.

Martina Fragale

 

 

“Un 2×12”: un libro che non è solo un libro. E l’editore che ha avuto il coraggio di pubblicarlo

Tutto è cominciato così: con me e Giordano Dall’Armellina che ce la cantiamo e ce la suoniamo. Proprio un bel quadretto. Poi, ecco che nasce l’idea folle: il progetto di una narrazione su due versanti. Musica e parole. E’ così che è nato il progetto di un libro di racconti e di un cd, una forma narrativa ibrida in cui la canzone completa a mo’ di quadretto qualcosa che il racconto non dice (o che è rimasto in filigrana).

Tutto il resto è venuto da sé. In primis, il filo conduttore del libro: un viaggio sui binari del tram 2 di Milano. Luoghi e volti, una realtà liquida in cui personaggi fragili scorrono senza soluzione di continuità sullo sfondo di un paesaggio che è costituzionalmente work in progress. Per me che ho scritto i racconti e i testi delle canzoni, il lavoro è stato una folgorazione sulla via di Damasco… e credo che Giordano abbia vissuto qualcosa di simile. Lo conoscevo come musicista folk e l’ho visto comporre pezzi nuovi, secondo non uno ma “degli” stili che non gli ho mai sentito sperimentare. D’altra parte, è così che funziona. Il bello della sinergia artistica è proprio questo: vedere la musica che ridisegna il profilo dei personaggi, facendoli diventare qualcosa di diverso da ciò che avevi pensato… e viceversa.

Detto ciò, tutto questo non sarebbe stato possibile se un editore coraggioso non avesse creduto nel progetto e non si fosse accollato i costi di tutto ciò che comportava: non solo del libro e del CD, ma anche di tre mesi tondi tondi di sala di registrazione. Il mio grazie, quindi va a lui: Gerardo Mastrullo di “La Vita Felice”. E ai favolosi musicisti che hanno partecipato alla creazione del CD: Maurizio Dehò, Giampiero Nitti, Garbiele Coltri, Tiziano Menduto, Angelo Maffezzoli, Silvia Bozzeda, Danilo Bajocchi, Adriano Sangineto, Sandro Bramati e l’ “immenso” Claudio Fasoli.

Pillole di storytelling per chi è troppo snob per guardare Game of Thrones (o per dire che gli è piaciuto)

Game of Thrones ha molto da insegnare, quanto a storytelling

Nell’ultimo mese, mi son fatta frequenti capatine sulle bacheche di parecchi amici scrittori. Gente che in buona parte stimo e che – proprio per questo motivo – mi ha colpito per l’atteggiamento tenuto rispetto alla serie che si è conclusa ieri sera. Parlo di Game of Thrones, ovviamente.

In linea di massima, la reazione si può dividere in tre grandi categorie: quella di chi dichiara (con orgoglio) di non aver visto la serie, quella di chi chi ammette (coi denti davanti)  di averla vista in parte e di trovarla pessima e quella di chi tace. La cosa che trovo strana – visto che apparentemente non stiamo parlando di una setta, ma di intellettuali presumibilmente liberi – è la povertà di voci fuori dal coro. Autori, cioè, che dichiarino che a loro, GoT, è piaciuto. Ovviamente parlo di un campione di persone piuttosto ristretto e circoscritto agli autori con cui sono in contatto sui social… di fatto, però, la domanda mi sorge spontanea: a che pro, tanto aristocratico snobismo?

Personalmente, mi è piaciuta tanto la serie quanto il suo discusso (ma poteva essere altrimenti?) finale. Al di là di questo, però, vorrei spostare l’attenzione su un altro campo: quello della percezione. E anche quello dell’utilità di GoT in termini di storytelling, per chi – di lavoro – costruisce storie.

La vitalità delle serie televisive vista da un altro punto di vista

La gente legge di meno, è un dato di fatto, ma il successo di alcune serie televisive – GoT in primis – potrebbe secondo me aiutarci a guardare al problema in un’altra prospettiva. Leggiamo di meno ma, di contro, non abbiamo smesso di aver bisogno di storie. C’è gente che si tappa in casa per fagocitare serie televisive, gente che cade nella dipendenza, altri che sviluppano un vero e proprio fanatismo.

Si può storcere il naso e parlare di fenomeni pop e di massa, ma questo non cambia il nocciolo della questione: oggi, come e forse più di ieri, continuiamo ad avere bisogno di storie e il fatto che il libro (come supporto di queste storie) stia in parte perdendo terreno è un problema, sì, ma non un’apocalisse. I libri non sono sempre esistiti, le storie sì. E a guardarle con occhi nuovi, sembrano avere una resilienza e una vitalità fuori dal comune.

Considerando le cose in quest’ottica, secondo me, il vero problema – il vero nemico – non è il fatto che la gente legga di meno ma qualcosa di molto più grave. Parlo del dilagare dell’analfabetismo funzionale e di quel deficit di attenzione che miete vittime tra i più giovani (ma anche tra di noi). il problema non è chi non legge, ma  l’atteggiamento abulico e i neuroni in pappa di chi non riesce più a seguire il filo di una storia. Quindi, viva le serie televisive se – almeno per ora – aiutano a controbilanciare quella che, sì!, sarebbe un’apocalisse!

 

Qual è la forza di Game of Thrones come storia? E cosa può lasciare di utile, a chi scrive?

Proprio perché ci troviamo davanti a una storia che funziona e che smonta parecchi cliché dati per assodati nello storytelling tradizionale, la risposta non è univoca. Per quanto mi riguarda, sottolineerei il “cambio di domanda” che riguarda l’Eroe. Cosa sia il Viaggio dell’Eroe, lo sa chiunque si sia masticato un po’di morfologia della fiaba. Ci sono serie televisive, che hanno gonfiato e moltiplicato le domande sul tema. “Fortitude”, per esempio – prima di mandare tutto in vacca nelle due stagioni successive – ha amplificato l’interrogativo “Chi è l’Eroe?” sullo sfondo di un contesto che avrebbe fatto vedere i sorci verdi anche all’Agatha Christie di “Dieci piccoli indiani”.

Game of Thrones fa qualcosa di diverso: moltiplica le domande o meglio, le frammenta e le accorpa intorno a quello che secondo me è il grande nucleo centrale. Non “chi è l’Eroe?” ma: “cos’è che rende tale un Eroe?” A modo suo, penso che ogni personaggio sia una risposta a questa domanda, che non presuppone (e alla fine non dà) una risposta univoca. Per il semplice fatto che una risposta esterna, non c’è. L’Altrove, è quell’azzurro apparente – che ci protegge da una Notte assoluta – di cui parla Paul Bowles in “Un tè nel deserto”. Gli Dei si manifestano in un alfabeto che i maghi non sanno decifrare e in nome del quale compiono ecatombi senza senso (vedi Melisandre).

In questa assoluta mancanza di un referente esterno (o meglio: di una trascendenza intellegibile) le “anime belle” – tipo Ned Stark – in fondo non servono a nessuno. Brienne di Tarth – epigono del cavaliere senza macchia e senza paura – è un Don Chisciotte triste, che si aggrappa a un giuramento e all’idea di una missione come se si trattasse di un suo personale esorcismo contro il Buio. Lo stesso stato di indecisione cronica a cui è crocifisso Jon Snow, allude a questa difficoltà normativa di trovare un principio etico universale a cui aggrapparsi.

Il discrimine tra i personaggi sta proprio qui: qualcuno di loro è nato con dentro un daimon da seguire, altri cercano ancora questa voce all’esterno. E non la trovano. Arya sa già chi è (e chi non è: cioè una lady) già dalla prima serie e una volta dismesso il vessillo della vendetta (la “sua” personale missione cavalleresca, quasi un doppio specularmente opposto a quello di Brienne) seguirà il suo daimon in composta solitudine. Danerys ha pure lei il suo daimon… solo che, nella sua parabola napoleonica, gli mette in mano un megafono e una missione ecumenica che trascineranno lei (e mezzo mondo) in un gigantesco tritacarne. Ecco, io credo che sia questa la chiave dell’originalità (e della bellezza) di Game of Thrones in termini di storytelling: la frammentazione dell’Eroe – inteso come monolite – in una nebulosa di schegge  apparentemente impazzite ma che seguono ognuna, la sua precisa traiettoria. E’ questo che genera i colpi di scena davvero imprevedibili, che sbaraglia le carte in tavola alla Sequenza di Propp e che dà l’impressione – a chi segue la storia – di essere davanti a qualcosa di completamente nuovo.

Game of Thrones ha cambiato il nostro sguardo sulle storie. Fenomeno pop? Forse, ma girare la testa dall’altra parte non ci rende più aristocratici: ci rende solo più miopi.

 

Game of Thrones e la paranoia dello spoiler. Ne abbiamo sempre sofferto?

Game of Thrones e la paranoia dello spoiler. Ne abbiamo sempre sofferto?

Un paio di mesi fa ho tenuto un corso di storytelling e sceneggiatura che, in fase di preparazione, mi ha indirettamente fornito una lente di ingrandimento su come è cambiato il nostro modo di costruire storie e di raccontarle. E’ proprio mentre ero lì “con le mani in pasta” nella fase di ricerca che un amico mi ha suggerito di guardare “Game of Thrones”.

Non amo il fantasy e le ambientazioni medioevali mi stufano a priori, ma l’amico in questione mi ha fornito l’esca perfetta dicendomi che “Le cronache del ghiaccio e del fuoco” scardinano diversi cliché dello storytrelling tradizionale (vedi schema di Propp ecc). Insomma, ho affrontato la fatica e mi sono macinata sette serie per rimettermi in pari. Risultati: ho immagazzinato materiale di riflessione da qui ai prossimi vent’anni. Effetti collaterali: ho sviluppato una dipendenza da GoT quasi invalidante (però ne sto uscendo).

Ma torniamo a bomba. Stamattina ho letto un articolo sull’ultimo episodio di GoT – che devo ancora vedere – e dopo poche righe mi sono resa conto (santiddio!) che si trattava di uno spoiler. Ho chiuso l’articolo. Ho smadonnato. Poi mi sono fermata a riflettere sul concetto di spoiler e mi  è sorta spontanea una domanda. Del tipo: è sempre esistita la paranoia dello spoiler? Come sono cambiati – in questo senso – i fruitori di storie?

Di materia prima sul tema, ce n’è a iosa a partire dalla letteratura più antica. Vogliamo parlare del dettagliato spoiler che Omero – o chi per esso – ci propina nel proemio dell’Odissea? Del prologo – altamente spoilerante – del “Romeo e Giulietta” di Shakespeare? Dell’incipit di “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”? Di alcuni film che iniziano a partire dal finale, come “Lettera da una sconosciuta” di Ophuls? La letteratura – e la cinematografia – sono piene zeppe di esempi di questo tipo. Se pensiamo poi a forme come la fiaba e la leggenda (cioè a storie fatte per essere ri-raccontate da chi non ne conosceva solo il finale, ma anche la trama) le cose sono ancora più evidenti. Chiudo l’elenco con l‘esempio di George Lucas, il quale nel ’76 (ripeto: settatasei!) raccontò per filo e per segno al New York Times la trama di Stars Wars dal principio alla fine.

Ma rifacciamo un passo indietro. C’era – in effetti – un tipo di storytelling, nel passato, in cui non erano previsti spoiler (al di là di gialli e noir, ovviamente). Lo dico con cautela e a caldo, perché non ho fatto ricerche approfondite in merito: parlo del romanzo d’appendice, una tipologia di racconto in cui l’uso di tecniche di suspense era fondamentale per indurre il pubblico a proseguire nella lettura (comprando il numero successivo del giornale). Ed è qui che mi sorge un dubbio: non è che alla fin fine il problema sta tutto qui? Forse abbiamo iniziato a fruire delle storie così come si legge un giallo, un noir, o come si leggeva un romanzo d’appendice: con l’attenzione magnetizzata dal “cosa succederà ora?” piuttosto che da altri elementi cardine dello storytelling universale.

Parlo dell’aspetto identificativo, per esempio: quello che – anche sul piano pedagogico – ha segnato il successo secolare (no, millenario) della fiaba. Quando un bambino prosciuga il cantastorie di turno chiedendogli di raccontargli per l’ennesima volta la storia Pollicino, non lo fa perché si è dimenticato la trama o il finale. Lo fa per precipitare in una sorta di mantra autoipnotico in cui sarà lui a diventare Pollicino e in cui lui sconfiggerà l’orco e tornerà a casa da vincitore.

Ci sono poi altre storie che sembrano fatte per essere ri-lette, ri-ascoltate e ri-viste piuttosto che per esaurirsi a una prima fruizione. Parlo – per esempio – di quelli che Calvino chiamava “i classici“: le storie che, a ogni lettura, sfogliano livelli ulteriori di significato. Ho ri-letto “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov nove volte. Ho rivisto “Jules et Jim” di Truffaut non so quante volte tanto che certi dialoghi, li so a memoria. Le storie – o meglio: certe storie – hanno senso al di là del finale o degli eventi cardine che ne scandiscono la trama. Anche GoT, che soprattutto nelle prime stagioni aveva dalla sua dei dialoghi bellissimi.

La paranoia dello spoiler appiattisce i livelli di lettura di una storia e ci impedisce di coglierne la tridimensionalità. Un po’ come per i viaggi.. Se non capite cosa voglio dire, leggetevi “Itaca”… che certe cose, Kavafis le aveva capite da mo’.

Quando il caffè diventa un ufficio. Confessioni di una nomade urbana.

Chi mi segue sui social sa che sono un animale da caffè. Il caffè inteso come luogo, giusto per capirci. Sia che si tratti di bar, pasticcerie o bistrot, i caffè fanno parte della mia quotidianità almeno per un paio di buoni motivi. In primis perché – cascasse il mondo – mai e poi mai rinuncerei al mio cornetto integrale al miele e in secondo luogo perché nei caffè, io ci lavoro. Così come ci lavorano tanti altri freelance.

I motivi sono diversi. In parte pratici. Per chi non ha un ufficio, il caffè rappresenta infatti un surrogato a buon mercato dei coworking e al tempo stesso una buona alternativa all’opzione più terra terra: quella di lavorare direttamente da casa. All’estero, peraltro, dove non solo ci sono più freelance ma è anche più sviluppato lo smart working, i caffè pullulano di professionisti di tutti i tipi. Qualche mese fa mi sono fatta il giro dei caffè di Londra con un amico che lavora spesso per conto proprio. E che di professione fa… il radiologo!  Il colosso Starbucks, di fatto, cavalca in buona parte l’onda di questa tendenza (e fa bene).

In Italia, le cose sono un po’ diverse e chi lavora nei caffè ha tendenzialmente un profilo professionale più circoscritto. E spesso un tantino bohémien, almeno agli occhi degli altri. Sono abbastanza convinta che in questo influisca anche una forte differenza di mentalità. In Italia, per esempio, si tende a sopravvalutare l’importanza dell’ufficio: inteso come status symbol professionale più che come luogo in sé. “Ho visto cose che voi umani… “soprattutto, ho visto liberi professionisti praticamente implumi sperperare nell’affitto di un ufficio perfettamente superfluo, soldi che avrebbero potuto investire in sviluppo concreto della propria attività. Ma l’ufficio, si sa, fa rappresentanza (anche quando l’unico a entrarci è l’affittuario). Diverso è il discorso per chi lavora in campo artistico o culturale, anche se – a ben vedere – le motivazioni sono specularmente simili e spesso anche il creativo che lavora da un caffè, lo fa per status symbol.  Cioè in quanto aspirante bohémien.

Per quanto mi riguarda, invece, il discorso è diverso. Scrivo nei caffè per motivi che non hanno nulla a che vedere con lo status symbol e che vanno addirittura oltre l’amore per il cornetto al miele. Amo i caffè perché ognuno di loro – anche il più squallido – è un porto di mare che pullula di vita. E perché con tutto il loro strabenedetto caos , per me rimangono sempre migliori di qualsiasi altra opzione. Biblioteche in primis. Tra gli esseri umani c’è sempre e comunque più vita che tra i libri. Lo dico io, che i libri li scrivo e li leggo… rimanendo però convinta che nulla alimenti la scrittura quanto il legame diretto con la realtà. L’hic et nunc che rappresenta il tessuto connettivo in cui – volenti o nolenti – tutti ci muoviamo.

In questa prospettiva, i caffè sono un inesauribile collettore di storie. Un davanzale sulla strada e sulla sua straordinaria vitalità, ma anche un osservatorio privilegiato su quella che Bauman ha descritto come “società liquida”. E che tutto sommato, tanto male non è. Ecco perché ho pensato di dedicare una parte di questo spazio ai luoghi della scrittura, cioè ai caffè – milanesi e non – in cui quotidianamente mi accampo a scrivere, ma anche agli aeroporti, alle stazioni e ai tanti occasionali ambienti di passaggio che mi è capitato di trasformare occasionalmente nel mio ufficio. Sono quelli che Marc Augé ha definito non luoghi e che personalmente fatico a considerare tali. I non luoghi non esistono. Sono semplicemente dei luoghi che aspettano solo di essere esperiti e colonizzati attraverso la fruizione diretta.

La differenza tra un ghostwriter e un utero in affitto

Ho un’amica che mi chiama “ghost” e la cosa mi piace assai. “Ciao ghost!”, mi dice. E io sorrido. Sorrido un po’ meno, invece, quando qualcuno mi consiglia – con tono confidenziale – di non includere questa attività nel mio curriculum vitae. “E nel curriculum mortis? Posso?”, chiedo sempre di rimando. Dopotutto sono una ghost.

Al netto di queste esperienze, comunque, ho deciso di scrivere qualche articolo per spiegare al mondo cos’è un ghostwriter e perché non mi vergogno di campare di questo losco (?) mestiere. Ma partiamo dagli inizi e vediamo di capire in prima battuta cosa NON è un ghostwriter. Di seguito, ecco una selezione stringata ma esaustiva delle peggio-cose che mi sono sentita chiedere. Attenti, perché è materiale che scotta.

“Ma un ghostwriter è un autore che scrive solo racconti di fantasmi?” (e va beh, passi) “Ma un ghostwriter è un autore che scrive libri travestito da fantasma?” (sì: qualcuno me l’ha chiesto. Gente che, peraltro, apparentemente  non si droga) “Fai la ghostwriter? Ma dai, povera! Che avvilente. Non è un po’ come dare l’utero in affitto?” (O Cristo!)

Dunque, vediamo di fare un po’ di chiarezza. Il ghostwriter è uno scrittore che presta la sua professionalità a un committente rinunciando all’autorialità della propria opera in cambio di un compenso pattuito. Il che è grossomodo ciò che capita negli ambiti più disparati e che viene accettato senza che nessuno si sogni di batter ciglio. Perché? Perché queste sono in linea di massima le caratteristiche di un terzista comune e silvestre e proprio questo è, un ghostwriter: un terzista della scrittura. A volte – proprio come fa il terzista – il ghostwriter lavora su un prodotto fornito dal committente (che ha scritto il libro ma si rende conto che l’opera non sta in piedi). Trattasi di outsourcing nel vero senso del termine. Altre volte il committente chiede al suo nègre di fiducia (sì, in Francia ci chiamano così!) di scrivere il libro dall’inizio alla fine.

Nulla di mostruosamente amorale se pensate che questo capita – dalla notte dei tempi – in settori diversi. La vostra lavatrice, con ogni probabilità, non è stata fatta per intero dall’azienda che le ha messo il marchio, la vostra adorata borsa di Gucci non è (udite! udite!) fatta per intero da Gucci. Idem per quanto riguarda gli ambiti più disparati, anche in campo artistico. Per esempio, qualche mese fa ho conosciuto la ghostwriter di un bravissimo comico italiano… che peraltro non è un imbroglione per il fatto di avere una ghost (in realtà, di ghost ne ha tre) ma semplicemente un bravissimo attore che si fa scrivere i testi da chi di dovere.

Detto ciò, chi sono i committenti di un ghostwriter? Scrittori? A volte sì: in alcuni casi, in realtà, sedicenti scrittori, altre volte scrittori veri e propri che avendo troppe commissioni “danno in appalto” un po’ di lavoro al loro esercito di scrittori fantasma. Si dice che anche Stephen King abbia i suoi ghost… personalmente non so se sia una bufala o meno. Anche se fosse, però, la cosa non mi scandalizzerebbe. Pensate solo ai quadri che passano per opere di (puta caso) Michelangelo e invece sono state fatti dalla sua “bottega”. Ok, in questo caso si trattava di apprendisti, ma nella sostanza di molti di loro non sapremo mai i nomi. Perché? Perché erano dei “ghost”. Punto.

Nella maggior parte dei casi, comunque, il committente del ghostwriter non è uno scrittore ma un professionista che lavora in ambiti diversi dalla scrittura e ha bisogno di firmare personalmente il libro non per motivi di vanitas vanitatis ma per semplici ragioni di personal branding Dopo anni che ci siamo sentiti stramazzare le suddette da sollecitazioni continue, oggi l’unica forma di pubblicità potenzialmente efficace è quella che “non spinge, ma attrae”. Ecco perché per esempio un cuoco che commissiona un libro a un ghost ha bisogno di far figurare il proprio nome: il libro, in questo caso, è una via di mezzo tra il biglietto da visita, il curriculum vitae e una potente calamita. In parole povere, al nostro cuoco non importa una cippa di vincere il Pulitzer: il libro gli serve per essere “riconosciuto” in mezzo al mare magnum dei cuochi in circolazione. E poi comunque, datevi pace, in casi come questo (sempre per motivi di personal branding) il ghost di turno non ha nessun interesse a rivendicare la paternità dei suoi figlioli… e non perché non creda nella validità della propria opera, ma perché non gli interessa accreditarsi davanti al mondo come il cuoco che – peraltro – non è.

Comunque, tornando a noi e alle domande imbarazzanti su cos’è un ghost… sappiate che sono oltremodo tollerante. C’è solo una domanda che mi fa uscire dai gangheri e la domanda è: “Ah, fai la ghostwriter? Hai visto il film  di Polanski?” Ecco, in quel caso vi bestemmio dietro ( e anche davanti). Non perché non ami Polanski, ma perché quel film finisce così…

“Strega comanda color…” Alice Bottarini, colour designer

E’ italiana ma vive a Londra dove – in barba alla Brexit in itinere – lavora tranquilla da anni. Alice Bottarini è una colour designer – anzi: colour design manager – e lavora nel settore dell’automotive di lusso. In cosa consista il suo lavoro, non l’ho mai veramente capito… almeno fino a un anno fa, quando Alice mi ha dato appuntamento a Parigi, nel Marais,  “Accompagnami in giro per negozi, sono qui per la mia azienda. Così mi vedi in azione e capisci che lavoro faccio”.  Un invito a nozze: da brava curiosa cronica, non me lo sono fatta dire due volte e così mi sono trovata in giro con lei tra gallerie d’arte e negozi di design. L’intervista vera e propria è iniziata in un negozio di arredamento, mentre la guardavo alzare le antenne, toccare tutto e registrare ogni cosa nei minimi particolari.

Dunque, partiamo dall’ABC. Perché siamo qui?

Quando entri in un negozio come questo, che è pieno zeppo di oggetti di design, riesci a capire subito qual è la tendenza attuale e quali saranno le tendenze future.

Ah sì?

Bè, certo… ovviamente devi essere un addetta ai lavori e bazzicare il nostro ambito. Per esempio, guarda qui: abbiamo delle sedie verde scuro, bordeaux e color panna rosato, su uno sfondo color aragosta. Non sono colori convenzionali, giusto? Ecco, mi basta questo per iniziare a fiutare il cambiamento e capire in che direzione si sposteranno i colori perché l’anno scorso, quando sono venuta qui,  le tonalità  dominanti erano di tutt’altro tipo: c’erano il blu, il bluette…

Ma di preciso – al di là del fatto che ora li trovi in questo allestimento – cosa capisci a partire dalle tonalità di questi oggetti?

Capisco che in futuro – e ti parlo di futuro prossimo – sul mercato sbarcheranno queste tonalità, che insieme allo sfondo aragosta ti fanno capire che ci sarà un ritorno ai colori tendenzialmente più saturi. Tu conta  che il colore sugli oggetti o sull’automobile manca da una decina di anni: un sacco di tempo. Quindi che succede? Gli acquirenti iniziano a stufarsi ed ecco che il mercato comincia a riproporre le tonalità pop che andavano in voga negli anni Cinquanta.

Un revival, quindi?

No, non proprio: diciamo che si tende a prendere ispirazione da quell’universo cromatico rivisitandolo. Prendiamo un colore a caso, il viola: lo ritroverai ma traslato in un viola bordeaux elegante. Niente a che vedere, quindi, con l’effetto piatto delle vecchie tonalità pop! Quello che tenderà a emergere verrà percepito come qualcosa di diverso, di più elitario.

Ma come nascono le nuove tendenze del colore?

Il punto di partenza è…

L’automobile.

No, quello è il punto di arrivo. Il punto di partenza è sempre l’oggetto meno costoso. Prendi ad esempio il tuo portafoglio (ndr: portafoglio in plastica iridescente, mostruosamente kitsch. L’ho scelto apposta per questo).

Bè, cos’ha il mio portafoglio che non va?

Nulla. Tu lo hai portato a casa pensando che la tua fosse una libera scelta, una forma di autoironia ecc.

Un gesto dadaista…

Ecco. E invece no. Fra tutti  i portafogli che avevi davanti, hai scelto l’unico che si distingueva da tutti gli altri, quello che avevi visto di meno… lo so che non la prenderai bene, ma in pratica sei entrata dritta dritta in un meccanismo perfettamente congegnato, che funziona proprio così: si inizia con l’introdurre le nuove tendenze cromatiche partendo dall’oggetto più economico per entrare nella sfera dei consumi di massa. Parti dallo smalto, dal portafoglio, dall’oggettino economico di Accessorize e poi magari tra tre anni Burberry ti propone il solito trench marrone con i colori del tuo portafoglio.

Mi stai dicendo che uscirà un trench iridescente?

Bè, guarda caso ne è già uscito uno con il bordo fluorescente. E’ così che prende forma il processo di innovazione del prodotto: in modo ragionato e tutt’altro che eclatante.

Ma come funziona esattamente il processo: si inizia col proporre ai clienti una gamma di colori, studiandoli e selezionando poi, in seconda battuta, quelli che gli acquirenti scelgono? O il colore dell’anno viene deciso a tavolino e poi “calato dall’alto”?

Esistono degli studi specifici, predefiniti, in base ai quali si sa già che il tal colore avrà una determinata possibilità di durata sul mercato, in relazione a un target specifico di acquirenti. Per quanto riguarda l’automobile, che come bene di consumo dura molto di più rispetto a un portafoglio, si tende a puntare su colori come il blu, il nero o l’argento. Tonalità che dureranno di più perché non annoiano. Quando invece l’obiettivo è quello di “stancare” più velocemente l’acquirente – inducendolo quindi ad acquistare più spesso – ecco che viene scelta una gamma di colori diversi. In questo caso, quindi, vengono introdotte delle tonalità che il tuo cervello elaborerà più velocemente.

Obsolescenza programmata applicata al colore, in pratica. Fammi un esempio.

Tipo, in un cappotto vengono inseriti dei particolare per cui dopo un anno ti stufi e cambi. In questo modo ti abitui a preferire sempre ciò che percepisci come una novità rispetto a ciò che il tuo cervello ha registrato come assodato.

Quindi, ricapitolando, il tuo lavoro consiste nel bazzicare negozi di design e simili per cercare di indovinare quali tendenze cromatiche si affermeranno nel mondo dell’automobile?

No, non tiro a indovinare: so che dall’esterno può sembrare strano (e anche un po’ magico) ma di fatto in base all’assenza o alla presenza in un determinato luogo, riesci a percepire con esattezza quando un colore tornerà sul mercato, quanto resterà e quando tramonterà. Nel 2006, per esempio, il marrone era il grande assente del momento e io mi sono ritrovata in università con una professoressa che mi diceva: vi ritroverete ad amare il marrone. Oggi, di recente, il marrone “è tornato” … ma i professionisti ci stavano già lavorando su da allora.

Quanto tempo passa dal momento in cui si inizia a cercare di introdurre un colore al momento in cui quel colore si afferma?

Dipende da che colore è e dipende da dove lo vuoi fare arrivare. Per esempio, come ti dicevo il mercato dell’automotive è il punto di arrivo finale. Quando si crea un prodotto, ci si regola di conseguenza. I designer quindi, se vogliono un oggetto poco durevole, vanno a vedere gli occhiali (che escono ogni sei mesi) e cercano di capire quali saranno le tonalità di grido in questo modo; se invece hai un progetto più a lungo termine, vai a vedere i mobili.

Ma chi è che “crea” le nuove tendenze?

I grandi brand, ovviamente. Quali, non posso dirtelo ma considera che in certi casi alcuni brand sono riusciti non solo a creare una tendenza nell’ambito del colore o del design ma anche a fagocitare l’oggetto stesso. Quando inizi a chiamare un prodotto con il nome del marchio, ecco che il marchio diventa iconico: prendi lo scotch, per esempio.

Abbiamo parlato di brand e di mercati, ma dimmi… il colore è così “meditato” anche in ambiti diversi, esterni rispetto al mercato?

Certo. Ti faccio un esempio che riguarda un contesto totalmente diverso, il mondo dell’urbanistica. Nelle strade in cui si vuole scoraggiare l’uso dell’eroina, vengono utilizzate luci dello stesso colore delle vene. Cioè tendenti al blu.

Perché?

E’ tutto un gioco di colori complementari. Per esempio, il complementare del blu è il giallo. Se tu metti una palla blu su uno sfondo giallo, trovi subito la palla.

Cioè, è più facile riconoscere un oggetto quando è vicino a un altro oggetto di colore complementare. Giusto?

Esatto. Torniamo alla nostra palla: se tu metti una palla blu su un prato blu, ecco che non trovi più la palla. Per lo stesso motivo, in certe vie, vengono utilizzate luci con tonalità tendenti al blu: in questo modo farai più fatica a distinguere le tue vene.

Mi togli un’ultima curiosità? Ti ho vista, prima, mentre annusavi un sottopentola. E ora ti vedo che tocchi tutto minuziosamente…

Certo, lo faccio apposta. Anche  il tattile ti dice qualcosa dell’idea che il colore dovrà produrre. Idem per la sensazione olfattiva. Ho annusato quel sottopentola per capire se sapeva di ferro o di plastica. Il colore non è una stanza chiusa, ma un campo aperto anche a tutte le altre percezioni sensoriali. Quando crei un colore, di fatto, devi essere in grado di riprodurre – insieme a quel colore – anche una determinata sensazione tattile o olfattiva. In modo sinestetico, quindi.