Coprifuoco in Lombardia. Come i media hanno gestito (male) una notizia che non era ancora una notizia

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Ripubblico qui il mio editoriale, uscito su BuoneNotizie.it il 21 ottobre

Ieri, in Italia, una quantità impressionante di cittadini ha dato per scontato che con giovedì partisse il coprifuoco in Lombardia. Peccato che in realtà, nonostante i titoloni pubblicati dai giornali, ieri il coprifuoco in Lombardia fosse tutt’altro che certo come ha dimostrato la frenata di Salvini. Cos’è successo? Perché è stata data per assodata una notizia che in realtà, fino alla tarda mattina di oggi, non era ancora stata confermata? Qual è la chiave del gigantesco misunderstanding? La risposta, purtroppo, è sotto gli occhi di tutti e riguarda i media. O meglio, la gestione in base a cui la maggior parte dei media più diffusi sta affrontando il tema della pandemia.

Come ben sa chi si occupa di fake news e di debunking, bufale e disinformazione stanno spesso nel titolo, più che nel corpo di un articolo. È quello che è successo anche ieri quando diversi titoli hanno gridato al coprifuoco in Lombardia chiarendo poi, fra le righe degli articoli, che in realtà la richiesta di Fontana aveva ricevuto solo il sì ufficioso del ministro Speranza. Il problema, però, è che – come è risultato da una ricerca di qualche anno fa – la maggior parte dei lettori si ferma al titolo, senza leggere il contenuto degli articoli. Cosa che ovviamente finisce per veicolare un livello di disinformazione preoccupante.

Sempre tornando alla giornata di ieri, fra i giornali c’è anche chi è riuscito ad andare oltre. Nel primo pomeriggio, una famosa testata ha pubblicato un titolo (corretto alcuni minuti dopo) che annunciava nientedimeno un “lockdown in Lombardia dalle 23, così come in Campania”. Ora, per quanto il titolo sia stato parzialmente corretto poco dopo, non ci vuole molto a capire che in una situazione spiccatamente emotiva come quella attuale, confondere concetti come lockdown e coprifuoco sia un errore madornale.

Ed è qui che sta il nocciolo della questione: il tema dell’impatto delle parole. Il ruolo dei giornalisti come mediatori di chiavi di lettura che non provocano solo un effetto emotivo ma hanno anche pesanti conseguenze pratiche. Come è ovvio che sia, visto il legame a filo doppio che connette pensiero e azione.

Perché i media tendono a diffondere una percezione negativa di quanto sta capitando? La risposta è complessa e ha a che vedere in parte con l’attuale modello di business in uso per la maggior parte dei giornali. Ma non solo. A fine marzo, il governo inglese ha elaborato una serie di “opzioni per incrementare l’adesione alle misure di distanziamento sociale”. Tra le diverse proposte, ce n’erano alcune che riguardavano proprio i media. In particolare, il documento insisteva su due punti: il tema della “minaccia percepita” che deve essere incrementata per indurre i cittadini ad adottare le misure di distanziamento (da una parte) e l’importanza – parallelamente – di veicolare messaggi positivi riguardo alle azioni di protezione (“le persone hanno bisogno di considerare le azioni di autoprotezione in termini positivi e di avere fiducia sul fatto che siano efficaci”).

Quella che indica il governo inglese, è quindi una strategia di comunicazione duplice che per certi aspetti viene consigliata tutt’altro che a cuor leggero. In una tabella finale, infatti, che analizza le possibili risposte a questa strategia, si puntualizza che “utilizzare i media per aumentare il senso di minaccia personale” potrebbe avere effetti negativi. Un aspetto, peraltro, che – spostando il focus sul nostro Paese – è stato ampiamente dimostrato.

Basti pensare ai dati della Società Italiana di Cardiologia, che ha rilevato un numero triplicato di infarti dall’inizio dell’epidemia. Un problema su cui giocano fattori diversi, fra cui – anche – il timore dei pazienti che per paura del virus hanno messo in secondo piano il ricorso alla prevenzione. L’esempio del governo inglese è circoscritto, ma sicuramente suggerisce una chiave di lettura utile e scalabile anche altrove.

La negatività o addirittura il registro catastrofista con cui i media stanno gestendo la comunicazione del virus, hanno però anche altre cause che hanno a che vedere con il modello di business dei giornali. Mi spiego con un esempio. In Francia il classico titolone che calca volutamente la mano e veicola fake news, è chiamato volgarmente “putaclic” (pute à clic). Il senso dell’espressione è piuttosto esplicito ed esemplifica chiaramente la tendenza a cercare di attirare i click degli utenti per convertirli in proventi pubblicitari.

La situazione, insomma, non è rosea: le condizioni di buona parte dell’informazione allo stato attuale e gli effetti ansiogeni che questo produce sugli utenti, sono sotto gli occhi di tutti. Che fare, quindi? Noi, come giornalisti, la nostra risposta l’abbiamo trovata ed è il giornalismo costruttivo. Siamo però convinti che anche i lettori abbiano un ampio margini di intervento e siano – potenzialmente – degli attori, più che dei soggetti passivi. Scegliere con cura i propri canali di informazione, cioè selezionare la propria dieta mediatica ed escludere articoli e servizi di bassa qualità, è un potente strumento d’azione. Così come è utile evitare di cadere nel tranello dei titoli acchiappa-click, smettendo di condividere notizie senza averle lette per intero.

Il giornalismo, così come ogni tipo di comunicazione in generale, non è mai univoco. Coinvolge, cioè, sia chi scrive sia chi legge. Non dimentichiamocelo.

Giornalismo costruttivo e coronavirus: come si racconta una pandemia?

come si può raccontare una pandemia con il giornalismo costruttivo

Negli ultimi due mesi, ho fatto alcune interviste e due servizi per la televisione tedesca. Si è trattato in tutti i casi di occasioni preziose, non solo per i contenuti ma anche – soprattutto – perché mi hanno “messa in crisi”. Una domanda che ci viene fatta spesso, durante i corsi, è: come si fa a trattare in modo costruttivo una notizia negativa? Di solito, rispondiamo invitando a spostare il focus sulle soluzioni: quelle che sono già state applicate in situazioni simili (per esempio) ponendo l’accento sulla “scalabilità” in un contesto diverso.

Negli ultimi due mesi, però, mi sono trovata davanti a difficoltà diverse. Perché una cosa, è scrivere un articolo e un’altra è fare un’intervista. Come fai a condurre un’intervista con gli strumenti del giornalismo costruttivo quando la situazione che ti sta raccontando il tuo interlocutore è praticamente in total-black? Quando le eventuali buone notizie sono troppo collaterali e di contorno, per avere un valore, e quando la persona che hai davanti è troppo immersa nel flusso delle cose per poter captare delle soluzioni che per il momento non ci sono?

L’ho toccato con mano in un’intervista in incognito quando un chirurgo – che, rischiando il licenziamento, mi parlava  dei problemi del suo reparto–  a una mia domanda sulle soluzioni possibili, mi ha risposto: “Devi capire che stai parlando con una persona sotto shock. La situazione che stiamo vivendo, è come una guerra: in questo momento, io sono uscito da una battaglia e tra mezz’ora tornerò dentro a combattere. Quello che vedo davanti a me, quindi, è solo il presente perché è su quel campo che sono chiamato ad agire oraLe emergenze, funzionano così.

Mi sono detta che aveva ragione lui e che forse potevo trovare un altro modo per fare giornalismo costruttivo. Perché in fondo, al di là delle definizioni teoriche, il giornalismo costruttivo è soprattutto giornalismo “utile”. La domanda corretta, allora, in situazioni come quella che ho raccontato, non è “quali sono le soluzioni possibili?” ma piuttosto: cosa è utile far emergere, di questo sfondo negativo, perché possano essere trovate delle soluzioni dopoA volte – più che un’operazione di ricerca – è utile un’operazione di setaccio, che escluda ciò che non serve (voyeurismo, riflettori accesi sui particolari morbosi) e metta in luce ciò che non funziona, in modo che in un secondo momento possa venire aggiustato.

Il dolore va raccontato fino in fondo se questo può aiutare i lettori a mettere a fuoco con lucidità ciò che sta succedendo e a cercare, insieme, nuove soluzioni. Altrimenti, indorando la pillola, si rischia solo di buttare via il bambino con l’acqua sporca.

Effetto farfalla: perché la gestione del covid è un problema anche per gli altri pazienti?

gestione covid

La gestione del covid non è solo un problema che riguarda il reparto malattie infettive. Anche un paziente oncologico, senza contrarre il covid-19, può morire a causa non del virus ma della gestione che ne è stata fatta. Così come un chirurgo che lavora in ambito oncologico, rischia di non poter fare il proprio lavoro, andando incontro a gravi conseguenze. In questa intervista, X – chirurgo che opera in un grande ospedale pubblico lombardo e che ha principalmente a che fare con pazienti oncologici – racconta quali conseguenze ha avuto la gestione del virus sul suo settore e sul suo lavoro. L’intervista è “clandestina” perché la Direzione del noto ospedale lombardo di cui si parla, ha vietato ai suoi dipendenti qualsiasi dichiarazione pubblica. Nelle intenzioni di X, l’intervista non rappresenta una denuncia fine a se stessa, quanto piuttosto un tentativo di mettere a fuoco una serie di problematiche a cui sarà necessario (e urgente) trovare delle soluzioni.

 

Qual è stato l’impatto della situazione covid su un reparto come il tuo, diciamo, “periferico”: in cui medici, cioè, lavorano con altre tipologie di pazienti, che non sono covid-positivi? Cosa hai visto cambiare?

Tutto, dalla A alla Z. Ogni singolo aspetto della nostra attività è stato completamente stravolto. Sostanzialmente siamo andati incontro a un progressivo lockdown anche noi. Ti parlo innanzitutto di cambiamenti quantitativi. Conta, per esempio che di solito operiamo circa 25 pazienti alla settimana (quindi 100 persone al mese, di cui 80 sono malati oncologici) mentre nell’ultimo mese abbiamo operato 6 pazienti di cui 5 tumorali gravissimi.

E gli altri?

Tutti gli altri sono rimasti in attesa. Non parlo solo di sala operatoria ma anche di attività di reparto. Normalmente abbiamo X posti letto che nell’ultimo mese sono andati riducendosi progressivamente per poter accogliere i pazienti covid-positivi. Cosa che abbiamo ovviamente accettato come indispensabile perché è chiaro che c’era (e c’è) un’urgenza più immediata.

 

Parliamo quindi di impatto sia sui pazienti oncologici che su altre tipologie di pazienti.

Sì. Da noi abbiamo un’attività di sala operatoria – e di conseguenza la necessità di posti letto – e un’attività ambulatoriale (in day hospital) dove effettuiamo piccole manovre parzialmente invasive, non proprio chirurgiche ma comunque non differibili.

 

Per esempio?

Ad esempio, procedure invasive cui i pazienti devono sottoporsi periodicamente, pena complicanze come le infezioni. E di setticemia, si muore. In pratica, così come per le attività chirurgiche, anche da questo punto di vista abbiamo dovuto limitare al massimo l’uso dei posti letto.

 

Cosa ha implicato questo, per voi e per il paziente? Un calo degli interventi?

No. Gli interventi minori come le suddette procedure, abbiamo continuato a garantirli ugualmente ma gestendoli a livello esclusivamente ambulatoriale, praticamente rimandando i pazienti a casa subito dopo a costo di rischiare sulla loro pelle e sulla nostra professionalità, proprio perché si tratta di procedure non procrastinabili.

 

Cosa rischia un medico costretto ad adottare questo modus operandi?

Rischia di non essere tutelato in nessun modo: un paziente, per esempio, potrebbe tranquillamente trascinarlo in tribunale (il che, come sai, è già una pratica molto diffusa in Italia negli ultimi anni). Oltre al rischio, in primis, di nuocere al paziente.

Tutto questo, ovviamente, abbiamo cercato di farlo passare attraverso la Direzione, in modo da avere (diciamo) un avallo esplicito da parte dell’ospedale.

 

E…?

Il sì è arrivato ma solo a parole, senza nulla di scritto. In pratica è come se stessimo utilizzando dei protocolli di guerra senza che però nessuno ce ne abbia dato esplicitamente uno. Le risposte arrivano in maniera del tutto informale, via mail o tramite whatsapp: quindi senza nessuna reale tutela, per noi.

Le grandi riorganizzazioni dell’attività sono state formalizzate, ma per le singole procedure della quotidianità abbiamo avuto un adattamento darwiniano non riconosciuto formalmente e che pertanto libera la Direzione da ogni responsabilità futura.Come si dice…”aiutati che Dio ti aiuta”.

 

Questo, a livello di gestione interna. Sul piano invece della gestione esterna, come si è attivata la Regione?

Quando è diventato palese a tutti che i tempi dell’epidemia sarebbero stati lunghi e di conseguenza il blocco dell’attività ordinaria non urgente, la Regione ha creato una rete assistenziale che comprendesse anche la sanità privata e quella privata convenzionata, per dare respiro a quella pubblica ormai al collasso. Cosa che porta alla ribalta un altro tema (quello del rapporto tra pubblico e privato) su cui vale la pena di riflettere.

 

Mi dicevi che questo vi consente comunque di operare solo una parte dei vostri pazienti.

Sì, sulle nostre liste di attesa per patologie oncologiche (già abitualmente lunghe e  ben oltre i trenta giorni entro i quali per legge bisognerebbe garantire le cure ad un paziente oncologico) siamo stati costretti a fare una forte selezione. Ti assicuro che questo è stato uno dei momenti più difficili: una sorta di “tu sì, tu no”, ben sapendo che chi non è stato classificato come urgente lo diventerà presto. Per un medico, dover dire a un paziente “non posso aiutarti” è qualcosa di terribile.

 

Cioè avete dovuto scegliere chi operare o meno?

Sì, sapendo peraltro che avremmo potuto curare anche meno pazienti di quanto ipotizzato.

 

E in base a quali direttive viene operata la selezione?

C’è tutto un dibattito sulle linee guida SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) secondo cui, in un momento di disponibilità insufficienti, bisogna cercare di privilegiare le risorse e darle a chi ha maggiori aspettative di vita. Questo in realtà non riguarda solo gli anestesisti ma anche noi. La notizia di oggi, per esempio, è che un paziente che era da 4 mesi in lista di attesa per un tumore, che era candidato a un intervento molto demolitivo e che – essendo un paziente fragile – aveva bisogno di un posto in terapia intensiva (per cui continuava a essere rinviato a causa della saturazione delle terapie intensive), ha fatto una rivalutazione da cui è risultato che sono insorte delle metastasi. Questo significa che quel paziente non verrà più operato, perché ormai la chirurgia non sarebbe più curativa per lui. Sarà un morto di tumore in più che forse, chissà, magari con un’operazione più tempestiva, si sarebbe salvato.

 

Come fate a comunicare a un paziente come questo che non lo potete operare? Vi sono state date delle linee guida generali?

Abbiamo avuto un mese di “pausa”, o quantomeno di riorganizzazione dell’attività come dopo un terremoto, e in questo lasso di tempo il grosso dell’attività è stato rispondere alle chiamate dei pazienti che ci chiedevano “Allora, quand’è che mi operate?” C’è stato quindi, di fatto, un contatto costante.

 

Guidato dalla direzione dell’ospedale?

No, assolutamente autogestito. In totale assenza di direttive. Abbiamo cercato di gestire tutto al meglio, in scienza e coscienza.

 

A livello di comunicazione, quindi, l’unica direttiva che avete ricevuto è l’obbligo di non comunicare all’esterno nulla di ciò che sta succedendo nel vostro ospedale?

Esatto.

 

E quando vi è stata comunicata?

Subito all’inizio, ribadita poi ulteriormente quando un dipendente ha inviato un messaggio whatsapp, in cui diceva peraltro cose verissime e che puntualmente si sono verificate e il vocal è diventato virale. Tant’è che a distanza di poche ore ci è arrivata la seconda comunicazione per cui l’unica deputata a dare informazioni è la Direzione, tramite le indicazioni della Regione.

 

Si è trattato di una direttiva interna, quindi? Non regionale?

Ufficialmente, la direttiva è arrivata dalla Regione. Nel nostro ospedale ci sono circa X (centinaia, ndr) malati covid ricoverati, su X (più che centinaia, ndr) posti letto. Ne sapevi qualcosa? Ne hai sentito parlare? Sicuramente no, tutt’oggi dopo più di un mese la gente continua ancora a chiedermi “ma da voi ci sono pazienti covid?”. Quando si parla di ospedali in prima linea per l’emergenza covid vengono nominati il Sacco, il San Raffaele. Non si parla di noi. La situazione è stata gestita in modo tale da evitare che uscissero informazioni da qui. Tanto che mentre venivano diffuse le linee guida di SIAARTI, che stabilivano la necessità di suddividere equamente le risorse, mentre a Bergamo il primario della rianimazione dichiarava apertamente che loro non potevano dare risorse a tutti perché le risorse le avevano finite, da noi si dichiarava pubblicamente che non è vero che il nostro ospedale non ha risorse e che i pazienti vengono selezionati ma che, al contrario, anche un ottantenne qui ha la possibilità di venire intubato come tutti gli altri pazienti. Si tratta di dichiarazioni ufficiali facilmente rintracciabili sui media, se vuoi verificare. Bè, io ho qui ricoverato un amico sulla settantina, che per fortuna non ha bisogno di essere intubato. Nel caso, so che i colleghi non me lo negherebbero e la cosa quasi mi dispiace, perché so che non può essere per tutti così.

Anche in altri ospedali, comunque ho dovuto rinunciare a intervistare il personale per direttive che (in quei casi, esplicitamente) venivano dalla Regione.

Non stento a crederlo. Sicuramente la direttiva originaria viene dalla Regione che vuole mantenere il controllo dei dati. Sappiamo bene, infatti, che il numero dei morti, dei contagi e dei malati è falsato da una serie di fattori infinita.

 

Ti riferisci alla scarsità di tamponi effettuati, immagino.

Sì, per quanto riguarda i contagi ma non solo. Prendiamo il numero dei deceduti: ce ne sono centinaia, che sono morti nella propria casa… in teoria di polmonite ma di fatto senza che nessuno li abbia sottoposti a tampone (e che quindi non rientrano nelle statistiche). Idem per quanto riguarda i malati che – finché non li sottoponi a tampone – non risultano percentualmente fra i malati di covid. La stessa cosa vale per i contagi, in merito agli asintomatici che hanno contratto il virus. Qui per esempio, non sappiamo chi fra di noi è stato contagiato perché la Regione Lombardia ha deciso di non fare tamponi a tappeto e i sanitari vengono sottoposti a tampone solo alla guarigione.

 

Non nel momento in cui insorgono dei sintomi?

No: non c’è il tampone alla diagnosi, ma al rientro. Dopo i classici 14 giorni viene effettuato un tampone, seguito – a un giorno di distanza – da un altro tampone. Con due tamponi negativi, puoi rientrare in servizio.

 

Questo, quindi, se sei sintomatico.

… e se sei in Lombardia. I nostri colleghi in Veneto vengono sottoposti a un trattamento ben diverso. Ho colleghi di Padova, Verona e Bassano che mi dicono che hanno già fatto 4 tamponi a testa. Cioè, in pratica, un tampone alla settimana. Anche i pazienti hanno un trattamento diverso. Nel loro ospedale non entra un paziente che non sia già stato sottoposto a tampone: ti parlo sia di pazienti arrivati al Pronto Soccorso, sia di pazienti che arrivano per interventi di qualsiasi tipo non procrastinabili. Queste sono differenze che hanno un peso enorme. Non te lo dico pensando solo ai medici ma anche e soprattutto nell’interesse dei pazienti: è un dato di fatto, noi medici siamo il principale veicolo di diffusione del virus. Veicolo interno ed esterno. Considera che siamo in pieno lockdown: praticamente, gli unici che girano a piede libero, siamo noi sanitari.

 

Visto quindi che regioni diverse hanno adottato una politica sui tamponi differente, perché secondo te Regione Lombardia ha preso questa strada?

Io ho la mia idea. Credo che la Lombardia abbia sbagliato direzione all’inizio. Quando uno fa un errore madornale in prima battuta e questo errore causa una catastrofe, poi dire “scusate, abbiamo sbagliato: ora cambiamo direzione” implica un suicidio politico. È così, quindi, che continua a venir iterato lo stesso errore che provoca morti su morti, per un unico motivo.

 

Senza stare a piangere sul latte versato, quale potrebbe essere l’alternativa, in questo momento? Perché immagino che un’alternativa ci sia.

Certo che c’è. Soprattutto ora, che i contagi sono stazionari e l’emergenza è più contenuta. È questo il momento di agire: di sterilizzare gli ospedali e di fare in modo che medici, infermieri, OSS e tutti quanti, siano sottoposti a tampone in modo da non reiterare la diffusione del virus. Siamo in un momento cruciale in cui davvero, si potrebbe cambiare strada.

 

E perché non viene fatto?

Probabilmente per paura di trovare troppi sanitari covid-positivi e di vedersi svuotare gli ospedali.

 

È un timore giustificato, secondo te?

No. Perché anche nell’ipotesi in cui io – asintomatico – risulti positivo, potrò comunque in tutta serenità andare a lavorare nel reparto destinato ai pazienti covid-positivi: evitando, quindi, di infettare gli altri ma rimanendo allo stesso tempo attivo.

 

Parliamo dei presidi. Quali sono le principali carenze che avete notato?

Le carenze sono a tutti i livelli. C’è il livello di sicurezza estrema, di cui si dovrebbe avere bisogno nei reparti di terapia intensiva dove i pazienti covid vengono intubati e dove c’è il rischio concreto di aerosolizzazione del virus (le famose droplets). Le prime rianimazioni sono partite perfettamente equipaggiate di tute in tyvek, poi progressivamente – venendo meno le tute – ci si è basati su altri presidi, che però sono inadeguati. Una collega mi ha parlato di visiere che, pur essendo un dispositivo monouso per definizione, vengono tenute per giorni interi, lavate con alcool a fine turno e debitamente conservate per evitare che vengano trafugate essendo diventate merce preziosa. Alla fine sono così usurate che, proprio nel momento dell’intubazione (il più rischioso, quindi) vengono direttamente tolte. Stessa cosa per quanto riguarda le mascherine ffp3, che vengono tenute ben oltre il loro limite e lavate con alcool a fine turno (non sono aneddoti, ma disposizioni e consigli della Direzione, sempre verbali ovviamente). Progressivamente hanno abbassato il livello di guardia, dichiarando che diversi presidi utilizzati all’inizio non erano più necessari. Conta che nei nuovi reparti di terapia intensiva che sono stati inaugurati da noi, le visiere necessarie se le sono comprate i medici: al Brico Center, prendendo quelle da giardinaggio. Mano a mano che si aprono le terapie intensive, quindi, in sostanza i presidi non ci sono.

 

Questo per quanto riguarda i reparti dedicati ai pazienti covid-positivi. Nel vostro reparto, invece?

Noi siamo obiettivamente quelli più a rischio. Oggi, infatti, come fai a dire con sicurezza che un paziente non è covid-positivo, soprattutto visto e considerato che siamo in Lombardia? Tutti i pazienti dovrebbero essere pensati come potenzialmente positivi nell’ambito di una pandemia, per definizione e secondo rigore scientifico, ma ciò non succede. Il fatto quindi che i sanitari del nostro reparto abbiano minori protezioni rispetto a quelli di altri reparti, mette tutti a rischio. Pazienti compresi.

 

Ma dall’alto come è stata veicolata questa carenza di presidi, a livello di direttive?

Le direttive sono cambiate progressivamente alleggerendo i presidi. Mentre quindi all’inizio sembrava che fosse necessario avere tutto, poi le necessità sono state ricalibrate sulla base di quel poco che c’era. E il risultato, è sotto gli occhi di tutti.

La carenza dei DPI (dispositivi di protezione individuale) non viene comunque riconosciuta ufficialmente dalla Direzione.

 

Mi accennavi a una soluzione messa in campo nella gestione dei vostri pazienti…

Sì. Come ti dicevo Regione Lombardia ha fatto in modo di creare una rete oncologica in modo da dirottare una parte dei nostri pazienti su centri chirurgici che potessero essere considerati covid free (almeno sulla carta).

 

Questa potrebbe essere una soluzione provvisoria concreta?

Solo parzialmente. È una decisione, infatti, che è stata presa in clamoroso ritardo e che avrebbe dovuto essere subito operativa. Poi c’è un altro problema, che questa decisione evidenzia, e che riguarda la commistione tra pubblico e privato. Il nostro è un ospedale pubblico “puro” (che permette al paziente di essere assistito senza dover pagare) dopodiché abbiamo all’interno dell’ospedale la possibilità di fare degli interventi e delle visite private, senza però che questo possa ridurre la capacità della struttura di curare il paziente non pagante. Esistono poi delle strutture private convenzionate e infine i privati puri. Ora, cos’ha fatto Regione Lombardia? Ha organizzato le cose in modo che noi, ospedali pubblici, iniziassimo a lavorare solo per i pazienti covid ma ha lasciato che le strutture private pure o private convenzionate continuassero a lavorare per i fatti loro.

 

Questo cosa implica?

Implica che un paziente che, puta caso, arriva da me a febbraio per un tumore e viene messo in lista d’attesa, a marzo verrà operato in una di queste strutture. Il tutto a loro beneficio, economicamente parlando. E ti dico di più: mentre qui noi impazziamo per cercare in qualche modo di stare dietro a tutto, nella clinica X o Y c’è ancora chi va a farsi mettere qualche misura in più di reggiseno… con un anestesista, pagato profumatamente dal paziente, che potrebbe essere impiegato negli ospedali pubblici, dove l’urgenza di personale in reparti covid, svuota di anestesisti anche reparti come il nostro. Anche questi non sono, ahimè, aneddoti ma fatti realmente accaduti. Pensa che in questo momento, i colleghi dell’ospedale privato convenzionato in cui andiamo a operare i nostri pazienti, ci hanno accolti a braccia aperte, perché loro – che lavorano con tanti pazienti che vengono da fuori regione – ora come ora hanno le sale operatorie vuote. A queste strutture quindi, non è parso vero di poter guadagnare sul pubblico: peraltro con responsabilità mediche e legali che rimangono a nostro carico.

 

A proposito di personale mancante, anche in Lombardia è stato aperto un bando per il reperimento di nuove risorse. Da voi sono stati assunti nuovi medici?

Sì, alcuni anestesisti specializzandi al quinto anno sono stati assunti. Si tratta però di persone che in pratica erano già dentro: da affiancamento, ora sono passati in prima linea. Non è stata, quindi, un’aggiunta vera e propria al netto del numero di persone che lavorano in un reparto.

 

Tenendo conto di tutte le mancanze che sono emerse, cosa è importante che cambi – a emergenza conclusa – perché in futuro una situazione simile venga affrontata in modo diverso?

Ci sono degli aspetti che possono essere migliorati ma di fatto, il grosso del cambiamento deve avvenire a monte. Parlo proprio di regole del gioco e di aspetti che dovevano essere cambiati da molto prima, perché riguardano tutta la sanità pubblica, dove si lavora allo spasimo e non in sicurezza. La cosa più importante, oggi, sarebbe rimpolpare gli organici e dare forza lavoro agli ospedali. Il secondo tasto dolente riguarda il rapporto tra pubblico e privato perché quello che faccio io qui e quello che fa il mio collega in una clinica privata, ha lo stesso valore ma un prezzo diverso e questo costo viene sostenuto dal paziente. Al di là dei presidi mancanti, al di là delle direttive inadeguate, poi, ci deve essere a livello globale un atteggiamento di tutela della nostra professione, che ci permetta (allo stesso tempo) di tutelare anche il paziente. Guardiamoci in faccia: oggi, per l’opinione pubblica, siamo eroi ma domani rischiamo di essere trascinati tutti davanti all’avvocato per aver fatto prendere la polmonite a chissà quanti pazienti! Ieri ho chiamato un paziente per dirgli che si era liberato un posto in sala operatoria e quando lui mi ha chiesto se poteva stare tranquillo, ho dovuto mettermi una mano sulla coscienza e dirgli: “No, ma mettendo le due possibilità sul piatto della bilancia è comunque meglio che lei venga”.

 

Parlando di possibili scenari nel futuro prossimo, sembra sempre più plausibile l’eventualità di una stabilizzazione del virus da uno stato di guerra a uno stato di guerriglia, con diversi stop and go

Sì, al momento è l’ipotesi più probabile.

 

Anche per quanto riguarda l’Italia?

Secondo me in Italia, ci sono due situazioni distinte: quella delle regioni in cui il virus è stato più virulento, come la Lombardia, che quando ripartiranno probabilmente non andranno incontro a grandi ondate successive, in parte perché (per precauzione) modificheranno il loro stile di vita e in parte perché, sinceramente, penso che la maggioranza della popolazione abbia ormai già contratto il virus (il che presuppone che una qualche forma di immunità di gregge, ormai si sia sviluppata). Ci sarà poi la situazione di regioni dove oggi il virus si è sviluppato meno e in cui, quindi, è possibile che le ondate successive siano molto più forti. In quei casi sì, lo stop and go potrebbe essere l’ipotesi più realistica.

 

Ecco, l’eventualità di questo tipo di scenario – e quindi la sua normalizzazione, anche se in modo differenziato – non potrebbe stimolare la messa a punto di nuove soluzioni a livello gestionale?

Dipende. La situazione in Cina, per più di due mesi, avrebbe dovuto metterci in guardia e spingerci a trovare risposte e soluzioni in anticipo. E invece no: il virus si è diffuso a macchia d’olio, senza che nessuno Stato dimostrasse di aver saputo far tesoro dell’esperienza cinese. Ognuno ha sempre pensato di essere il più forte, il migliore e che non sarebbe stato toccato. La realtà delle cose ha dimostrato il contrario: bisogna essere preparati. L’esercito, in tutte le nazioni, ha dei programmi per la guerra chimica che includono degli stock di risorse intoccabili (riserve di mascherine, farmaci e materiale vario) che progressivamente scadono e vengono sostituite. Questo insieme a piani di evacuazione, ecc. Queste cose esistono, ma sono confinate al mondo dell’esercito. Creare delle procedure di questo tipo, per uno Stato è una decisione difficile da prendere ma credo che ormai vada considerata seriamente.

Didattica a distanza tra problemi e soluzioni. Cos’è e come potrebbe cambiare la scuola italiana

didattica a distanza e coronavirus
Pierpaolo Amodeo insegna in una scuola media di Gaggio Montano, un piccolo comune appenninico del Bolognese. Dall’inizio del lockdown, così come i suoi colleghi di tutta Italia, Pierpaolo si confronta con una modalità di insegnamento nuova che sta ponendo sul piatto della bilancia cambiamenti, problemi ma anche esigenze e opportunità di trasformazione. Dal confronto con la tecnologia alle difficoltà strutturali delle zone con scarsa copertura di rete e delle famiglie che non hanno gli strumenti adeguati. Dal problema di trovare nuovi modi per stabilire una connessione emotiva con gli studenti all’esigenza di ripensare il sistema dei voti in termini diversi.

 

Con il passaggio (obbligato) all’online, la didattica è cambiata strutturalmente. Partiamo dai supporti: quali strumenti usi per fare lezione ai tuoi studenti?

Per le videolezioni, utilizzo la piattaforma Cisco Webex che è una delle tante che sono state messe a disposizione gratuitamente dalle aziende in questo momento. La parte centrale della didattica a distanza, però, si sviluppa sulla suite di Google, a cui avevamo accesso già prima dell’emergenza, e in particolare su Classroom, Meet ed Hangouts Di fatto c’è un’ampia scelta di piattaforme che ci permettono di fare videoconferenze e non solo di preparare, banalmente, materiale didattico.

 

Che atteggiamento ha avuto rispetto a queste opportunità, la maggior parte del corpo insegnante?

All’inizio ci sono state un po’ di difficoltà perché non eravamo prontissimi. Nei primi giorni si sono affermate due grandi linee di pensiero: la prima, quella di chi preparava materiali per i ragazzi, da studiare e affrontare da soli; c’è stato poi, invece, chi ha organizzato lezioni in diretta attraverso servizi di streaming on-line. Oggi, a quasi due mesi dall’inizio dell’emergenza, tutti noi siamo attrezzati non solo per fare lezioni online secondo un orario ormai definitivo, ma anche per costruire momenti di valutazione che si sviluppano su compiti a casa, interrogazioni e anche verifiche in diretta. Il problema più serio riguarda quelle materie che si basano su supporti diversi dai libri, come musica, arte ed educazione fisica. In questi casi, i colleghi hanno trovato modi diversi e complementari per affrontare i loro programmi didattici.

 

Da parte degli studenti, invece? Partecipano alle lezioni e li senti attivi o no?

Sì assolutamente, sono molto più bravi di molti insegnanti: molti di noi hanno la difficoltà di avere una generazione di troppo, cosa che non aiuta. Gli studenti invece sono più o meno tutti nativi digitali. I problemi che emergono dipendono principalmente dal fatto che spesso sono dei bravi utilizzatori ma non dei bravi conoscitori. C’è stato però un fattore importante di dispersione dovuto alla carenza di mezzi tecnologici, di connessioni ma anche di propensione dei singoli alunni. Ad oggi, se i primi due aspetti sono stati risolti attraverso un intervento diretto della scuola che ha fornito i supporti (computer in comodato d’uso e reti), il secondo è il vero enorme scoglio che mina nel profondo l’universalità della didattica a distanza. Io, personalmente, mi posso ritenere fortunato: la maggior parte dei miei studenti partecipa con assiduità anche se con il tempo è emerso un problema che non esiste nella scuola fisica: l’assenza in presenza.

 

In che senso?

In molte occasioni, almeno un paio di ragazzi per classe erano presenti solo virtualmente: quando venivano chiamati non rispondevano e mi hanno fatto capire che non stavano affatto seguendo la lezione. Devo segnalare, però, anche una forte componente di ragazzi che con la didattica a distanza si è dimostrata incredibilmente proattiva e prolifica: presente sempre a lezione, pronta a intervenire, consapevole del percorso e intenzionata a fare altro e di più. E non sempre questi ragazzi sono gli stessi che a scuola erano tra i più bravi: ora li sto vedendo tutti con occhi diversi perché sono altro, io, e sono altri, loro, in questa emergenza. In alcune zone d’Italia e in alcuni istituti, invece, so che la presenza online è seriamente minata dalle condizioni di fortissimo disagio socio-economico: questo implica un’enorme dispersione scolastica di ragazzi che non riescono a essere intercettati.

 

Hai avuto qualche feedback da colleghi che insegnano in zone in cui la connessione è limitata (o in cui i ragazzi hanno difficoltà ad avere dispositivi adeguati)?

No, non ho diretti contatti con altre scuole del territorio che sperimentano questi problemi. So di scuole che si sono attivate con molto ritardo per portare avanti la didattica a distanza e so di una scuola superiore in provincia di Bologna, un professionale, che sta sperimentando un grosso problema di dispersione scolastica da parte dei suoi alunni. Ma le informazioni che ho sono parziali e non posso dire altro.

 

Da insegnante, che limiti vedi nella didattica a distanza rispetto a quella dal vivo?

In realtà la scuola è fisicità, nel senso che c’è davvero bisogno dell’ “essere presenti”. Il corpo, e tutto ciò che non passa attraverso il linguaggio, sono essenziali. Dal contatto con gli studenti, al semplice sguardo, passando per la condivisione del medesimo spazio: non siamo più in grado di sapere se i nostri studenti ci stanno seguendo e se la nostra lezione sta funzionando. Non sappiamo più valutare la distanza fisica di cui gli studenti hanno bisogno e non possiamo mettere in atto le pratiche di prossimità che molti di loro richiedono. Riscontriamo quindi lo stesso limite che c’è in ogni relazione quando viene interrotta la possibilità di praticarla fisicamente.

Coronavirus: diario di bordo di un medico generico. Cosa è cambiato e cosa dovrà cambiare

un medico generico racconta il coronavirus

Intervista a Ludovica Tagliabue, medico generico a Milano (zona Lorenteggio). Cosa è cambiato – a livello operativo – con la pandemia? Come è stata gestita la situazione dall’alto? Cosa è mancato ai medici generici che da un giorno all’altro sono stati catapultati in prima linea? 

Ludovica, come è cambiata la situazione dal punto di vista di un medico generico negli ultimi due mesi?

Innanzitutto è cambiata per quanto riguarda la disciplina. Sono molto più severa sul fatto che le persone si debbano presentare da me solo dopo aver preso appuntamento e non “a caso” (perché spesso, normalmente, arriva qualcuno senza aver chiamato). In questo periodo, rispetto al solito, ci sono molte più persone che arrivano da me con la febbre. Alcune vengono a farsi visitare temendo di avere il coronavirus, altre invece dicono semplicemente che hanno la febbre: in questi casi, io devo capire di volta in volta come comportarmi. Sono in tanti ad arrivare qui con l’ansia di ammalarsi: sta a me,  accoglierli e aiutarli a far fronte alla situazione.

Quindi generalmente, rispetto a quello che succede di solito nel mese di marzo, ci sono molte più persone con la febbre (anche senza sintomi da coronavirus)?

Sì. A me sembra proprio di sì: molte più del solito. Ho fatto una statistica un po’ spannometrica, ma ne sono sicura: in genere il grosso dell’influenza normale finisce a febbraio.

Tra questi pazienti, ti è capitato qualcuno che effettivamente avesse sintomi da coronavirus?

Sì, sono capitate alcune persone, con delle brutte polmoniti. Questi pazienti,  poi sono stati mandati in ospedale ed effettivamente sono risultati affetti da coronavirus.

Qual è la prassi in questi casi. Quando riscontri dei sintomi che sospetti siano da coronavirus, tu – come medico generico – cosa devi fare?

Fino a tre settimane fa bisognava valutare e chiedere se c’erano stati contatti con gente che veniva dalla Cina o con persone infette. Adesso la prassi è cambiata: bisogna capire la gravità del quadro clinico, ovvero se il paziente soffre o meno di insufficienza respiratoria. Se non ci sono problemi respiratori, dico al paziente che deve stare a casa e lo monitoro soprattutto per telefono. Di fatto, però, lo considero infettivo anche se non ha ancora fatto il tampone (che si fa solo in ospedale ai pazienti gravi). Mentre con l’influenza normale dicevamo al paziente: “Stai a casa 5 giorni”, oggi gli imponiamo di rimanere a casa almeno 15 giorni.

Quando invece i sintomi sono gravi, dove mandi i pazienti?

In quel caso c’è un numero telefonico di riferimento e a quel punto dovrebbe attivarsi il servizio di emergenza.

La chiamata passa da te o la fa il paziente?

Mah… alla fine la facciamo tutti e due. In tutto, comunque, mi è capitata una decina di casi per ora.

Ti si presentano tendenzialmente più giovani o anziani in questo momento?

Più giovani, forse. Gli anziani che hanno la febbre stanno a casa (e li visito a domicilio) ma non sono tantissimi. Sono più i giovani che vengono in studio.

Tu che hai a che fare con tanti pazienti, hai mezzi adeguati per coprirti, per proteggerti?

Ecco, questa è proprio una nota dolente! Nel senso che Ats (la ex ASL) non ci ha dato assolutamente niente, all’inizio ci ha consegnato giusto 10 mascherine (chirurgiche, quelle che servono per non contagiare gli altri, non a non essere contagiati), un pacco di guanti e un barattolino di disinfettante in tutto e soprattutto non ha fatto nessuna formazione sull’utilizzo dei presidi. Mascherine a parte, infatti, dovremmo usare anche i camici “usa e getta”, dovremmo avere una mentalizzazione dello spazio che distingua la parte pulita dalla parte sporca, dovremmo toglierci i guanti quando dobbiamo scrivere ecc… dovremmo anche pensare come e dove cambiarci se andiamo a domicilio (sul pianerottolo? In anticamera? E dove buttiamo il materiale quando ci svestiamo?)  Ecco, tutta questa formazione, ce la siamo improvvisata tra di noi (tra colleghi), aiutandoci a vicenda, ma non ci è stata assolutamente fatta da Ats. In pratica ci è toccato andare a caccia di mascherine per conto nostro. C’è molta polemica su tutto questo.

10 mascherine e qualche presidio in in fase iniziale, quindi. E successivamente?

Il 21 marzo ATS ci ha dato altre 20 mascherine chirurgiche e un altro pacco di guanti. Il 23, il Comune di Milano ha donato ai medici 5 mascherine FFP2 (più protettive) e un altro barattolo di disinfettante lavamani.

Tu, personalmente, come hai fatto a procurarti ciò che ti serviva?

Un’amica che lavora in ospedale mi ha procurato una scatola di mascherine (introvabili, in questo momento) dicendomi “In fondo, sto solo trasferendo questo materiale da un settore del SSN all’altro, non è un furto.” Qualche giorno fa invece, nella cantina di un palazzone di un quartiere popolare in cui si vende materiale medico, la venditrice mi ha proposto un pacco di camici usa e getta un po’troppo sottili che aveva sottomano e poi ha tirato fuori (per regalarmeli) tre camici “di quelli buoni”, belli spessi e impermeabili ma scaduti per la sterilità (cosa che a me non interessa affatto perché non devo andare in sala operatoria) dicendomi “Li apra subito, se no i NAS potrebbero farci molte storie”. E alla collega in fila prima di me, che aveva detto “Li tenga via per i miei amici”, la commessa ha risposto “Dobbiamo fare un po’ per uno.”

Al di là della scarsità dei dispositivi di protezione, parlavi anche di carenza di formazione da parte di ATS. Nello specifico, su quali punti sarebbe stato utile – da subito – avere direttive comuni?

Il punto fondamentale, senza dubbio, è ciò di cui ti parlavo: scarsità di dispositivi di protezione (molti dei quali, peraltro, non sono assolutamente adatti) e assenza totale di formazione sul loro utilizzo. Altra nota dolente: numero telefonico ATS destinato agli operatori sulle problematiche relative al Coronavirus a cui non risponde mai nessuno e mail altrettanto muta; assenza di formazione seria sulla gestione dei contatti (quanti giorni di quarantena? A partire da quale momento vanno contati? Come dobbiamo gestire i contatti paucisintomatici?). Le ADI (ndr: Assistenza Domiciliare Integrata) COVID (e ora le USCA = Unità Speciali di Continuità Assistenziale) citate nella delibera sono nominate ripetutamente in comunicazioni/delibere successive da un mese: sono state attivate? C’è poi una situazione delicatissima che ci troviamo a fronteggiare senza sapere cosa fare: io ho da gestire pazienti con sintomi suggestivi di COVID che non sapremo mai se sono CORONAVIRUS+ o meno (perché, a meno che non si aggravino e vadano in ospedale, a nessuno di loro verrà fatto il tampone). Come si può intuire, questi pazienti, quando e se stanno bene, sottovalutano il rischio di contagio per la comunità o magari hanno problemi lavorativi e devono lavorare (ho l’esempio di una OSS di una cooperativa che si occupa di una struttura privata convenzionata, che se va a lavorare rischia di contagiare tutti i pazienti di quell’ospedale). Su questi stessi pazienti io non ho alcuna linea guida clinica adattata alla realtà milanese (come dovrebbe essere una linea guida, che considera le risorse disponibili nella realtà locale) per la gestione domiciliare. Ecco, questi sono alcuni dei punti su cui sarebbe necessario fare chiarezza.

C’è qualche aspetto positivo che è emerso durante la difficile gestione di questa situazione? Magari anche proprio dalle difficoltà gestionali che vi trovate ad affrontare?

In parte, sì. Proprio in risposta alla mancanza di linee guida stabilite dall’alto, tra medici generici tendiamo a supportarci e a cooperare molto: abbiamo stabilito alcune procedure per gestire nella quotidianità i pazienti che abbiamo in carico. Ovvio, però, che non si può pensare che queste forme di coordinamento, sorte spontaneamente dal basso, sopperiscano all’assenza di una normativa comune.

Quando l’epidemia sarà alle nostre spalle, quindi, cosa sarà necessario cambiare (secondo te) perché – nell’eventualità di una situazione simile – non vengano ripetuti gli stessi errori?

I manuali di medicina preventiva e sanità pubblica dicono che le malattie infettive si combattono scoprendo e inattivando le sorgenti di microrganismi, interrompendo le catene di trasmissione, ovvero modificando i fattori ambientali e i comportamenti che favoriscono la persistenza e la diffusione dei microrganismi e aumentando la resistenza alle infezioni. Tutto ciò presuppone un lavoro multidisciplinare sul territorio, di educazione sanitaria e di bonifica territoriale che deve essere effettuato sempre, non solo nel mezzo di una epidemia. Dalla nascita del Servizio Sanitario Nazionale, i servizi territoriali di sanità pubblica (soprattutto in Lombardia) sono stati tagliati: una grave perdita per i pazienti ma anche per la medicina di base, che non ha strutture “al suo livello” con sui interfacciarsi. Questi servizi devono essere presenti e attivi sempre, ci sia o no un’epidemia. Inoltre è molto importante valutare seriamente le evidenze scientifiche (che possono derivare dalle sperimentazioni, ma anche dalle esperienze portate avanti in altri contesti) prima di prendere qualsiasi tipo di decisione sanitaria. E questo in Italia spesso non viene fatto.

Credi che nasceranno nuove forme di coordinamento e che saranno i medici stessi a portare avanti queste richieste?

Spero che si torni indietro rispetto a una organizzazione del servizio sanitario nazionale ospedalocentrica, perché secondo me la salute si fa soprattutto con la prevenzione, e quindi sul territorio. Probabilmente sì, una visione del genere deve essere portata avanti dai medici. Non dai decisori politici.

Giornalismo Costruttivo: cos’è, come funziona e perché è necessario

giornalismo costruttivo: il primo libro italiano sul tema

Che cos’è il giornalismo costruttivo? Me lo sento chiedere spesso. Nella maggior parte dei casi capita che l’interlocutore tracci automaticamente un link mentale con il giornalismo positivo, cioè con le cosiddette “buone notizie”. Anche perché obiettivamente, nel panorama italiano, il concetto di “buone notizie” è molto più sdoganato di quanto sia il concetto di giornalismo costruttivo.

E’proprio per tracciare un quadro generale e iniziare a rispondere ad alcune domande, che con Alessia Marsigalia e Silvio Malvolti ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo pensato di scrivere il primo libro sul giornalismo costruttivo pubblicato in Italia: “Giornalismo costruttivo: cos’è, come funziona e perché è necessario”.

Il libro tira le fila di anni di viaggi e di studio che hanno portato ognuno di noi a confrontarsi con quei contesti in cui il giornalismo costruttivo è nato ed è riuscito (anche egregiamente) a mettere radici. Dal Transformational Media Initiative, il progetto transnazionale che nel 2014 ci ha portati a Londra per due mesi, al Transformational Media Summit di Parigi – l’anno successivo – alla Global Constructive Journalism Conference, che abbiamo seguito in Danimarca, in Olanda e in Svizzera.

E l’Italia? In Italia abbiamo tenuto diversi incontri  e conferenze sul tema. L’anno scorso, per esempio, all’Università IULM di Milano abbiamo tenuto un  corso per l’Ordine dei Giornalisti della Lombardia. Ma certo, c’è ancora molto da fare. L’idea del libro nasce proprio dall’esigenza – e dalla volontà – di dare una risposta a questa domanda. Crediamo che questo libro (rivolto soprattutto, ma non solo, a chi lavora nel mondo dell’informazione e della comunicazione) possa iniziare a fornire nuovi strumenti di lavoro e nuove prospettive di orientamento a chi – come noi – crede nelle potenzialità di rinnovamento del giornalismo.

 

Femminicidi e Giornalismo Costruttivo: qualche chiave di lettura in più

il femminicidio visto attraverso il giornalismo costruttivo

Il femminicidio è un tema di cui è difficile parlare da un punto di vista diverso rispetto a quello della pura denuncia. La paura di minimizzare (o di essere accusati di farlo) fa novanta. Eppure considerare il problema anche da angolature diverse, mettendo in luce aspetti meno trattati, non significa sdrammatizzarlo ma – al contrario – vuol dire fornire strumenti utili per comprenderlo meglio e affrontarlo in modo efficace.

Credo che le chiavi di lettura più utili siano quelle che riguardano i numeri, la prospettiva in cui vengono letti, le risposte concrete che sono state messe in campo e la loro possibile replicabilità in contesti differenti.

 

I numeri del femminicidio in Italia e in Europa

femminicidi in Europa

Come si posiziona l’Italia, quanto a femminicidi, rispetto agli altri paesi europei? La percezione che emerge dalla frequenza delle notizie in merito e dalla prospettiva in cui sono presentate dai media tradizionali, sottolinea una quantità di omicidi volontari di donne che spesso e volentieri – nel percepito del pubblico – viene interpretata come un “crescendo”.

E’interessante, quindi, contestualizzare i dati italiani confrontandoli con quelli delle altre nazioni europee. Da un’analisi Istat del 2016, risulta che in realtà l’Italia si colloca fra i paesi con minor incidenza di omicidi volontari di donne. Il nostro paese è infatti preceduto solo dalla Spagna, dalla Grecia, dalla Polonia, dai Paesi Bassi e dalla Slovenia. Il primato macabro, va piuttosto alle Repubbliche Baltiche e all’Ungheria, con Francia e Germania che seguono a breve distanza. La situazione, peraltro, è molto simile se si allarga lo spettro di analisi agli omicidi sia maschili che femminili: anche in questo caso, l’Italia risulta sestultima all’interno del contesto europeo.

diminuzione degli omicidi e dei femminicidi

E ora spostiamo il focus all’interno del nostro Paese mettendo a confronto i dati degli omicidi volontari per sesso in un arco temporale che va dal 1992 al 2015. Quella che emerge dai dati Istat è una generale riduzione che però procede a un ritmo decisamente diverso.  Se gli omicidi di uomini calano in modo radicale (da 4,0 per 100.000 maschi nel 1992 a 0,9 nel 2015) , gli omicidi in cui la vittima è una donna vanno incontro a una riduzione molto meno evidente, pur partendo da una consistenza numerica decisamente inferiore (da 0,6 a 0,4 per 100.000 femmine).

 

Come vengono letti i dati? Il problema del percepito

Tirando le fila dei dati Istat, il risultato è che negli ultimi 25 anni, in Italia, il numero degli omicidi si è assottigliato per entrambi i sessi seguendo però trend differenti, con una riduzione minore per quanto riguarda i femminicidi. All’interno del contesto europeo invece, il nostro Paese occupa una delle ultime posizione in tema di quantità di omicidi al femminile.

Il panorama che i dati mettono in luce è molto diverso rispetto a quello che emerge dai media e dalla percezione comune. Perché? La risposta non è certo univoca . Come ha dimostrato la colossale operazione portata avanti da Ipsos Mori con “Perils of Perception”, sono molte le tematiche su cui il divario tra reale e percepito tende a ingigantirsi (non solo in Italia).

Sul tema dei femminicidi influisce probabilmente la prospettiva (tendenzialmente catastrofista) attraverso cui molti media filtrano le notizie, ma non solo.

Un anno fa, è uscito su La Stampa un articolo che evidenziava come le denunce al 1522, il numero promosso dal dipartimento Pari Opportunità, fossero aumentate del 50 per cento. Un dato apparentemente allarmante che però la stessa  Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, Presidente del Telefono Rosa, invitava a leggere in modo diverso: “C’è di sicuro un significativo aumento delle donne che chiedono aiuto e decidono di mettersi nella condizione di ricevere assistenza. È un segnale decisamente positivo nella nostra battaglia contro il fenomeno sommerso della violenza e che dimostra una sempre maggiore consapevolezza delle donne che escono allo scoperto e trovano il coraggio di denunciare le violenze subite, che molto spesso avvengono all’interno delle mura domestiche.” L’aumento delle richieste d’aiuto, quindi, non indicherebbe un incremento delle violenze, ma un aumento delle donne disposte a reagire e a chiedere supporto.

Sull’Huffington Post, invece, Paola Tavella ha pubblicato un articolo dal titolo esaustivo (“Chi gonfia i dati sul femminicidio alimenta la violenza”) in cui ha puntato il dito contro un’ altra trappola mentale che rischia di aumentare il divario tra reale e percepito: ““Non tutti gli omicidi di donne sono femminicidi (…)Siccome siamo di fronte a una tragedia che accade ogni giorno, non vorrei trovare nel conteggio corrente dei femminicidi del 2016 il nome di Kamajit Kaur, un’indiana di 63 anni uccisa a San Felice sul Panaro da un vicino
di casa che odiava gli stranieri e voleva cacciare lei e la sua famiglia. Kamajit Kaur purtroppo sarebbe stata uccisa per razzismo pure se fosse stata un uomo…”

 

Soluzioni work in progress

Quando si parla di soluzioni a un problema articolato come quello della violenza sulle donne, le risposte possibili devono necessariamente coinvolgere entrambe le parti in causa: sia l’uomo che la donna.

All’interno del contesto italiano, sono diverse le realtà che cercano di mettere in campo possibili risposte, a partire dall’esigenza di fornire strumenti, percorsi e opportunità di cambiamento agli uomini che manifestano una tendenza alla violenza. I Centri di Ascolto per Uomini Maltrattanti sono presenti su tutta la penisola e operano sia secondo modalità rieducative (basate sul confronto e sulla rottura dell’isolamento) sia in termini di raccolta dati che aiutino a mettere a fuoco un identikit comune.

Come ha osservato Alessandra Pauncz, del Cam di Firenze: “Quando lavoriamo con uomini che sono violenti non troviamo dei mostri assetati di sangue, ma semplicemente uomini che hanno appreso un linguaggio in cui per un uomo è legittimo e giusto prevaricare sugli altri ed in particolare su donne e bambini. C’è un sottile linguaggio del privilegio maschile, che fa sì che gli uomini pensino di essere legittimati ad essere violenti, senza mai percepire le proprie azioni come violente. Credo che il primo passo per cambiare la cultura della violenza sia riconoscerla e nominarla.

Sull’esigenza di promuovere percorsi educativi (oltre che ri-educativi) e riflessioni sul maschile, si sono inoltre mosse diverse associazioni di uomini tra cui “Maschile Plurale” che oltre alla collaborazione con i centri anti violenza, promuovono anche corsi nelle scuole.

Si tratta ovviamente di soluzioni work in progress che mostrano il fianco anche ad alcuni punti deboli, già di per se stessi impliciti nell’adesione volontaria ai programmi di recupero. Per chi intraprende il percorso, inoltre, la difficoltà maggiore è il superamento delle prime fasi della terapia: il 40% degli assistiti, getta la spugna prima di aver raggiunto dei risultati. I margini di migliorabilità sono quindi piuttosto ampi ma l’incremento delle proposte e la maturità di strutture come il il Cam di Firenze (attivo dal 2009) mostrano un contesto tutt’altro che immobile.

 

“No means no worldwide”

Di tipo diverso e con obiettivi differenti, è il programma “No means no worldwide“, che va però a toccare alcuni punti che hanno a che vedere molto da vicino con il tema del femminicidio. Se l’obiettivo del programma, nato in Kenia nel 2009, è quello di ridurre sensibilmente gli stupri, il metodo messo a punto è un complesso articolato di strumenti pratici e teorici, rivolti ai giovani (donne e uomini), che vanno a disinnescare miti e strutture alla base della violenza sulle donne. Sia che si parli di stupro sia che si parli di femminicidio.

Nato nei bassifondi di Nairobi per opera di Lee Paiva, il programma ha preso forma negli anni ed è stato portato anche in Uganda e negli Stati Uniti. In Kenia, le applicazioni del programma hanno ridotto i tassi di stupro del 50% e l’abbandono scolastico legato a gravidanze indesiderate è calato del 46%.

C’è poi un altro dato che merita di essere sottolineato: il 74% dei ragazzi che hanno partecipato al corso e che in seguito hanno assistito a un tentativo di violenza, sono riusciti a intervenire e a fermarlo. La violenza sulle donne, non è un problema “solo” delle donne e le soluzioni possibili non possono prescindere dal coinvolgimento di entrambi i sessi.

 

 

Fake news, debunking ecc… Giorgio Testanera ed io torniamo sulla breccia

Terzo anno, terza conferenza sulle fake news con Giorgio Testanera. Questa volta abbiamo portato il nostro format “Dialogo tra uno scettico e una giornalista” all’Associazione Alfonso Lissi di Como. Che dire… ormai siamo così rodati che abbiamo quasi deciso di battezzarci “Buffalo Gate”.

A tre anni di distanza dalla “prima” la nostra conferenza-spettacolo è cresciuta e ha finito per abbracciare temi sempre più ampi: non solo il tema delle fake news, dei limiti e delle possibilità del debunking ma anche argomenti come Post Verità, omofilia delle reti, tic cognitivi e filtri di internet.

Ecco la diretta facebook di sabato (sì, lo so: l’audio lascia molto a desiderare)

Cos’è il giornalismo costruttivo?

A luglio, all’ Università Iulm di Milano, ho tenuto un corso per l’Ordine dei Giornalisti della Lombardia insieme a Silvio Malvolti, Alessia Marsigalia e Assunta Corbo. Insieme abbiamo raccontato cos’è il Giornalismo Costruttivo, distinguendolo dalle “buone notizie” tout court e parlando del successo di esperienze d’Oltralpe e d’oltre Oceano. Bello, tornare in università ma dall’altra parte della barricata… speriamo di aver innescato qualche domanda, qualche dubbio e soprattutto il seme del cambiamento in qualcuno.

Sui giovani sono ottimista: hanno un’altra forma mentis. Per quanto riguarda i colleghi più anziani, sicuramente c’è molto più disincanto e a volte è difficile far passare il messaggio ma la curiosità c’è e i vecchi schemi iniziano a franare.

Ecco un breve estratto del mio intervento.

La pizza gourmet? A volte parla anche di immigrazione e lavoro

Non so altrove, ma a Milano – ultimamente – è tutto un pullulare di pizzerie gourmet. Lo dico senza ironia perché a me, la pizza gourmet piace. “Marghe”, “Capperi che pizza”, “Pizza biscottata”, Gino Sorbillo: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Il fenomeno è interessante, ma lo diventa ancora di più se lo si prende come possibile chiave di lettura  dei cambiamenti che stanno investendo la nostra società. A partire dall’impatto dell’immigrazione sul mondo del lavoro.

Partiamo da un presupposto: tra immigrazione reale e immigrazione percepita c’è un gap consistente, come mostrano alcuni studi di Ipsos Mori usciti qualche anno fa anche sul Guardian. Detto ciò, è inutile negare l’ovvio: l’immigrazione esiste, è un fenomeno di massa che ha una portata globale e ha innescato cambiamenti strutturali all’interno della nostra società. Anche all’interno del mondo del lavoro. Che però questi cambiamenti siano per forza peggiorativi e si riassumano nella formula “gli immigrati ci rubano il lavoro”… bè, questa è una semplificazione che sconfina con il fakeUn po’ perché il mondo del lavoro è un universo complesso e ricco di sfumature, un po’ perché l’evoluzione di certi settori sembra suggerire esattamente il contrario.

E qui torniamo a bomba… o meglio: al mondo della pizza gourmet. E’ un mio cliente, che mi ci ha fatto fare mente locale: un professionista che lavora nell’ambito delle farine biologiche e degli impasti per pizza. L’ho conosciuto in occasione di un’intervista che verteva su altro, ma che di fatto mi ha permesso di mettere a fuoco alcuni aspetti su cui non avevo ancora fatto mente locale. Il mondo della pizza e l’affermazione della pizza gourmet rappresentano infatti un ambito in cui l’immigrazione ha innescato un cambiamento profondo e tutt’altro che negativo. 

Cos’è successo, è facile da riassumere. Sotto casa mia c’è una pizzeria “Da Mimmo” che continua a chiamarsi “Da Mimmo” ma ha cambiato i connotati: i proprietari sono egiziani. Quando mi sono trasferita qui, dieci anni fa, la loro pizza era una ciofeca: per andare giù andava giù… ma poi ti si riproponeva. A oltranza. Oggi la pizza di “Mimmo” è migliorata: intendiamoci, non che sia un capolavoro ma non ti si ripropone più. Ed è economica. In zona Pasteur, invece, mi è capitato di mangiare più volte pizze cinesi di specchiata onestà.

Riassumendo: quando  i primi pizzaioli egiziani e cinesi hanno iniziato a venire alla ribalta, i pizzaioli nostrani – probabilmente – non ci hanno fatto neanche caso. D’altra parte la pizza, quella “vera” (manco esistesse!) la facevano loro… specialisti in pizza napoletana ma nati a Casalpusterlengo e tirati su a polenta e latte. Una cosa, però, i pizzaioli finto-napoletani non l’avevano prevista. Anzi, due: da una parte, le capacità mimetiche dei nuovi arrivati (che hanno iniziato a imparare il mestiere e a darci dentro pesantemente), dall’altra l’arrivo della Crisi, che ha trasformato la concorrenza in un gioco al ribasso. La battaglia – manco a dirla – l’hanno vinta i nuovi arrivati, capacissimi di sfornare pizze simili a quelle dei vecchi e per di più molto economiche. In breve, i tanti Mimmo e Gennaro che affollavano le strade di Milano hanno finito con l’abbassare la saracinesca.

Fine della storia? No. Ed è qui che interviene il colpo di scena, perché a un certo punto ha iniziato a emergere una nuova generazione di pizzaioli made in Italy, un po’ hipster un po’ manageriali: attenti alle farine, al lievito madre, alla materia prima. La pizza si trasformava in esperienza, in ricerca, in filiera di piccoli produttori… e nasceva la pizza gourmet. Complice, anche in questo senso, il darwinismo sociale della Crisi che ha spinto chi non voleva giocare al ribasso a puntare su una qualità che giustificasse prezzi più alti. Partita vinta? E’ un po’ difficile dirlo, anche perché ora le pizzerie gourmet iniziano a essere tante e la concorrenza si è già trasformata in una lotta al coltello.

Personalmente, guardando al futuro, non saprei dire se qualcuno dei nuovi brand – perché di brand si tratta – si affermerà in modo continuativo, se si tratti di una gigantesca bolla di sapone o se prevarrà la logica delle startup… ma una cosa è certa. Il fenomeno trova la sua chiave di lettura nella prospettiva che, qualche anno fa, Michael Clemens (membro del Center for Global Development) aveva suggerito in un interessante articolo. Analogamente, Mette Foged e Giovanni Peri – in  “Immigrants’ Effect on Native Workers: New Analysis on Longitudinal Data.” – hanno mostrato come, di fronte all’impatto dei flussi migratori, i lavoratori danesi non altamente qualificati abbiano reagito specializzandosi in mansioni più complesse: lasciando, per esempio, il lavoro manuale ai nuovi arrivati. Una sorta di “scalata” lavorativa, insomma. Fondamentalmente la stessa che in certi ambiti si svilupperà per una causa molto diversa rispetto all’immigrazione: quella tendenza all’automazione dei processi produttivi che oggi si tende a chiamare Industria 4.0. 

Il fenomeno, come dicevo, è complesso e certo non si può far di tutta l’erba un fascio… il mondo del lavoro è una bacheca fatta di nicchie diverse e non è vero che tutti gli ambiti funzionino allo stesso modo. Per quanto riguarda il mondo della pizza, però, mi sembra che si giochi a carte scoperte… e il gioco mi sembra un “bel gioco”. Con buona pace di chi – davanti a una pizza gourmet – arriccia il naso con stizza e rimpiange la pizza di un Gennaro che, nella maggior parte dei casi, non si chiamava neanche così.

Martina Fragale